10 settembre 2020
La Terra se la caverebbe egregiamente senza di noi, che abbiamo bisogno della biosfera per respirare e mangiare; la biosfera non ha alcun bisogno di un mammifero bipede di grossa taglia autoproclamatosi Homo sapiens, che oggi ha invaso, occupato e stravolto gran parte degli ecosistemi terrestri. Faremmo quindi bene a sparire? No, ma faremmo bene a considerare come sarebbe il mondo se noi sparissimo.
Nella storia della Terra svettano per intensità cinque estinzioni di massa, le cosiddette Big five: quelle di fine Permiano, Cretaceo, Ordoviciano, Devoniano e Triassico. Le caratteristiche di queste morie generalizzate sono il tasso abnorme di estinzione di famiglie (dal 20 al 65 per cento) e di specie (dal 50 al 95 per cento) in unità di tempo, e la relativa velocità. Secondo i modelli più recenti, un’estinzione di massa può avvenire soltanto quando si instaura una sinergia tra eventi inusuali, in particolare: 1) dinamiche climatiche rare e accelerate; 2) alterazioni nella composizione dell’atmosfera; 3) infine, in presenza dei primi due fattori, il verificarsi di uno stress ecologico di intensità anormale.
Ripetiamo. Clima che cambia più rapidamente del solito, composizione dell’atmosfera alterata, stress ecologico: non ci ricorda qualcosa? Non è che per caso la stessa micidiale sequenza sta accadendo anche adesso? Il parallelismo preciso tra estinzioni di massa del passato ed estinzione attuale fu suggerito tempo fa da grandi evoluzionisti ed esperti di biodiversità come Edward O. Wilson, Norman Myers e Niles Eldredge. La tesi a quel tempo era fondata su statistiche imprecise, era più che altro una suggestione provocatoria e molti, forse per lenire eventuali sensi di colpa, l’accolsero come un’esagerazione. Nel 2011 accadde però che un team internazionale di Berkeley, guidato da Anthony D. Barnosky, verificò le stime di estinzione, integrò dati, considerò tutte le cautele del caso e giunse alla conclusione, pubblicata su Nature, che la sesta estinzione di massa non è ancora in corso, ma ci manca poco.
I tassi di estinzione degli ultimi millenni superano di gran lunga quelli registrati nella documentazione fossile per le cinque maggiori estinzioni degli ultimi 540 milioni di anni. 322 specie di vertebrati terrestri si sono estinte dal 1500 a oggi, altre centinaia sono in via di estinzione e per tutte, mediamente, si assiste a un calo del 28 per cento nelle popolazioni. Due terzi di queste estinzioni si sono accumulate nell’ultimo secolo, segno che il processo è in fase di accelerazione. Perdiamo complessivamente ogni anno dalle 11mila alle 58mila specie.
Se mantenessimo questo tasso di estinzioni, in tre o quattro secoli raggiungeremmo la fatidica soglia del 75 per cento di specie estinte, cioè la paurosa quantità dell’ultima grande estinzione di massa di 66 milioni di anni fa. Tre secoli sono un buon tempo per evitarla. Non è facile, ma potrebbe essere un modo per differenziarci dai dinosauri e non fare la stessa fine.
Il cambiamento climatico in 5 punti e alcune buone notizie
A noi figli della rivoluzione industriale l’agricoltura sembra il regno naturale, del bucolico e del biologico, ma sul piano evoluzionistico fu una svolta brutale
Noi Homo sapiens abbiamo nei confronti del nostro pianeta un atteggiamento invasivo e predatorio da tantissimo tempo. Non è una questione recente. Gli archeologi vedono chiaramente che la linea di avanzamento dei clan di Homo sapiens coincide con l’estinzione di massa della megafauna (il 72 per cento dei mammiferi di grossa taglia estinti in Nord America, l’83 per cento in Sudamerica e l’88 per cento in Australia). I nostri antenati divorarono fino agli ultimi esemplari decine di specie di mastodonti americani. Era già accaduto prima a spese dei grandi marsupiali australiani e degli uccelli atteri delle isole. Ogni volta che Homo sapiens è arrivato da qualche parte, per qualcun altro è suonata la campana. Non siamo in armonia con l’ambiente da un sacco di tempo.
Con l’umanità in espansione si instaura nella storia naturale un’inedita asimmetria: noi siamo in grado di smantellare in un battito di ciglia ciò che la natura ha impiegato millenni per costruire. L’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento accelerò i processi di estinzione, insieme all’urbanizzazione e alla conseguente crescita della popolazione umana. A noi figli della rivoluzione industriale l’agricoltura sembra il regno naturale, del bucolico e del biologico, ma sul piano evoluzionistico fu una svolta brutale. Il numero totale di alberi, dall’inizio dell’agricoltura a oggi, si è dimezzato. L’allevamento, oltre al folle consumo di acqua, comporta l’imbarazzante situazione per cui, se mettiamo sulla bilancia i mammiferi terrestri, il 67 per cento sono animali allevati, il 30 per cento sono esseri umani e solo il restante misero 3 per cento è fauna selvatica.
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Nel 2002 il chimico Premio Nobel Paul Crutzen propose quasi per scherzo su Nature, insieme all’ecologista Eugene Stoermer, di dare un nome alla “geologia dell’umanità”: il nome proposto fu Antropocene. I nomi sono convenzioni, ma l’Antropocene si è presto rivelata un’etichetta provvista di una sostanza piuttosto densa. L’idea di Crutzen ha avuto il merito di accendere i riflettori sulla temeraria corsa della specie umana consentendo anche di riflettere sulla sua evoluzione e sulle possibilità di modificarne il tragitto. Un grosso ostacolo si frappone però alla possibilità di intervenire nel gioco: la nostra mente fatica a comprendere l’ampiezza dell’Antropocene. Siamo in grado di afferrare la possibilità di un lontano mondo senza di noi, ma il nostro cervello tende a rifiutare, nel profondo, una tale evidenza. È troppo vasta, illimitata. La rimozione potrebbe essere anche dovuta alla paura, sottaciuta ma presente, del prezzo che dovremmo pagare per uscire dalla trappola evolutiva in cui ci siamo messi.
Ci sono almeno cinque ragioni per cui sentiamo intimamente che il riscaldamento climatico è importante ma è qualcosa di imponderabile e di lontano, e di conseguenza impossibile da affrontare e risolvere per ciascuno di noi singolarmente. In primo luogo è un problema multidimensionale e come tale nessuno lo può padroneggiare completamente. In secondo luogo è un processo lento e progressivo che, di conseguenza, genera assuefazione cognitiva e consuetudine. In terzo luogo, ha una dimensione globale e come tale sfida la nostra intuitiva “etica della prossimità”, che porta a concentrarci su effetti recenti e locali delle nostre azioni. Quarto, richiede azioni i cui effetti saranno percepiti, se tutto va bene, dalle generazioni future. Questa lungimiranza è incompatibile con la necessità di soddisfare emotivamente i propri elettori nelle elezioni di medio termine. Infine, è un affare eminentemente probabilistico e statistico, il cambiamento climatico è una questione di medie, di traiettorie ed eventi influenzati in modo imprevedibile, quindi ci chiede di essere responsabili verso la probabilità e non la certezza.
L’evoluzione per selezione naturale non ha modellato il nostro cervello con la funzione di affrontare problemi probabilistici, globali e multigenerazionali. Pertanto il cambiamento climatico è un processo che sta generando non solo un disallineamento evolutivo, ma anche un disadattamento cognitivo. Secondo lo scrittore indiano Amitav Gosh e altri, una debolezza aggiuntiva è tracciata dal fallimento della nostra immaginazione. Abbiamo perso la percezione del ruolo di eventi naturali imprevedibili a causa del potere dell’abitudine, dell’inerzia e della nostra assurda e criminale mancanza di lungimiranza quando costruiamo città e quartieri sotto i vulcani, ai piedi di montagne franose o su rive instabili. Il potere delle forze non umane è un’esperienza di disorientamento. Per questo la crisi climatica è anche una crisi di immaginazione.
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Noi passiamo alle generazioni successive non soltanto i geni e le acquisizioni culturali e tecnologiche, ma anche tutte le trasformazioni ambientali. Le prossime generazioni saranno quindi native del cambiamento climatico
A fronte di questa insensibilità generale, chi deciderà veramente sul clima? Il timore è che il peggioramento della crisi ambientale conduca progressivamente a interventi governativi sempre più emergenziali e dirigistici, o che induca a pianificazioni statali poco compatibili con società liberali. Ma l’alternativa di forme di democrazia diretta non ha finora dato risultati confortanti. Dobbiamo allargare l’orizzonte. Abbiamo bisogno di una prospettiva evolutiva, di una lente del tempo profondo che ci faccia uscire dall’asfissia del pensiero politico monocorde contemporaneo. Di fronte alla crisi climatica dovremmo pensare in termini di specie.
Adottando una prospettiva evolutiva, abbiamo almeno due argomenti razionali per sperare in bene. Una via d’uscita potrebbe risiedere nella trasmissione ereditaria. Noi passiamo alle generazioni successive non soltanto i geni e le acquisizioni culturali e tecnologiche, ma anche tutte le trasformazioni ambientali che abbiamo causato. Attraverso questa eredità ecologica, le prossime generazioni saranno quindi native del cambiamento climatico. Avranno una dimestichezza naturale con l’innovazione, le energie rinnovabili, la cattura del carbonio atmosferico, l’efficienza energetica, le tecnologie di accesso aperto etc. Il secondo argomento è che chi avrà un cervello culturalmente e biologicamente diverso dal nostro, plasmato da altre conoscenze (anche grazie a noi), potrà fare scoperte e inventare soluzioni nei modi di vivere che oggi noi non possiamo nemmeno immaginare e men che meno prevedere. La resilienza di Homo sapiens si è dimostrata finora, in effetti, notevole.
Per il resto, occorre cambiare la crescita con un’azione globale coordinata. I riformisti pensano che siano sufficienti alcuni opportuni aggiustamenti e parlano ancora di “priorità”. Altre proposte economiciste sono di un paternalismo involontario quasi imbarazzante, come quella di chiedere alle nazioni con più alte emissioni di affittare o comprare estensioni di foresta tropicale da proteggere per compensare il loro inquinamento. Sono soluzioni interne alla cornice di comportamenti e preconcetti che hanno creato il problema, a parità di diseguaglianza sociale. Il paradosso della crescita (più viviamo meglio in più parti del mondo e più l’ambiente va verso il collasso) suggerisce la necessità di interventi assai più radicali e sistemici. Ad esempio, vietare l’estrazione e l’uso di combustibili fossili. Avvicinare l’approvvigionamento energetico alle comunità locali. Abolire gli allevamenti intensivi. Curare le filiere del cibo in modo che siano socialmente eque e con bassi costi ambientali. Pianificare il trasporto su rotaia. Ma soprattutto investire risorse ingenti e strutturali nell’istruzione, nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica. Ancora più in generale, unire umanesimo e scienza, illuminismo e solidarietà.
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L’ecologia è la scienza delle relazioni. Non ci dice che dobbiamo preferire la natura a noi, ma che senza un rispetto profondo per la natura non c’è futuro nemmeno per noi, che ne siamo parte legittima e integrante. L’umiltà evoluzionistica di chi sa guardare il mondo senza di noi è la base per un ambientalismo scientifico e umanistico, critico e pragmatico che abbandoni definitivamente gli accenti antiscientifici del passato e le ideologie antiumaniste. Non dobbiamo capire che siamo potenti, quello lo sappiamo già. Dobbiamo capire se siamo cognitivamente ed eticamente all’altezza di quel potere. Umiltà evoluzionistica significa in particolare capire che abbiamo avuto una grande fortuna a essere qui, adesso, sul terzo pianeta del sistema solare, a riveder le stelle ogni notte. Significa riconquistare quella biofilìa, cioè l’istintivo attaccamento emotivo ed estetico alla natura. Una biofilia scientificamente consapevole e informata.
Dopo tutto, abbiamo solo duecento millenni di vita. Siamo una specie africana giovane e piena di potenzialità. Crollate le finte consolazioni e seppelliti i negazionismi, il nostro essere esposti alla contingenza pericolosa dell’Antropocene potrebbe farci ritrovare le basi di un sentimento morale di comunanza: la simpatia darwiniana, la compassione volterriana, la ginestra leopardiana, il condividere un percorso accidentato e incerto, consapevoli della nostra finitudine come individui e come specie. Da una fragilità, le basi per uno scatto di dignità, per un tragico ottimismo, per un’etica della finitezza.
Da lavialibera n°4 luglio/agosto 2020
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