30 gennaio 2020
Sul tema dei cambiamenti climatici, in cui a volte si sentono polemiche o informazioni confuse, ci sono alcuni punti fermi: partiamo da quelli.
C’è un gas che si chiama CO2, ovvero anidride carbonica o biossido di carbonio, la cui quantità nell’atmosfera sta aumentando. La presenza di questo gas viene misurata direttamente dal 1958 con la curva di Keeling, mentre per il periodo precedente possiamo affidarci ai dati ricavati dallo studio delle calotte di ghiaccio.
L’aumento di anidride carbonica in atmosfera è legato all’utilizzo dei combustibili fossili: il carbone (carbonio puro), il petrolio (una miscela di idrocarburi) e il metano (composto da carbonio e idrogeno). Quando bruciamo questi combustibili fossili, ad esempio nelle centrali termoelettriche per produrre l’energia per scaldarci o nella forma di benzina o diesel per far viaggiare la nostra auto, produciamo CO2. Una parte dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo viene assorbita dalla biosfera e dagli oceani che si acidificano, ma la maggior parte si accumula nell’atmosfera. Parliamo soprattutto di CO2 perché è il cuore del problema, ma ci sono problemi connessi anche ad altri gas come l’N2O, ovvero il protossido di azoto legato all’utilizzo di fertilizzanti, o il metano che è legato all’agricoltura, alle fermentazioni delle discariche e ai ruminanti, ed è inoltre intrappolato nel permafrost (lo strato di terreno permanentemente gelato che si trova nel sottosuolo di zone a latitudini elevate, specialmente vicino al circolo polare artico, ndr). Tuttavia, se noi smettessimo ora di emettere metano, fra 20 o 30 anni torneremmo ai livelli preindustriali, mentre l’anidride carbonica è molto stabile e dura più a lungo nel tempo.
Questo aumento di anidride carbonica in atmosfera ha delle conseguenze. Il primo ad averne scritto fu Svante Arrhenius, fisico e Nobel della chimica, che nel 1896 pubblicò un articolo sui rischi di tale aumento. Arrhenius parlò dell’effetto serra che, è bene ricordarlo, è un fenomeno benefico senza il quale la temperatura sul nostro pianeta sarebbe a -18 gradi, l’acqua sarebbe ghiacciata e noi non esisteremmo. In parole semplici, l’effetto serra fa sì che una parte dell’energia che la Terra cede all’universo, rimanga intrappolata nell’atmosfera. La presenza di alcune sostanze come la CO2 aumenta questo effetto serra. Arrhenius scrisse che continuando a bruciare il carbone la temperatura del pianeta sarebbe aumentata. Di fatto si è verificato ciò che lui e tanti dopo di lui avevano previsto. Oggi, però, non abbiamo solo la spiegazione fenomenologica di questo cambiamento, ma anche i dati che lo dimostrano. Certo, la scienza del clima è complessa e ha delle incertezze, ma il riscaldamento globale è inequivocabile ed è misurato dalle tante centraline collocate su tutto il globo.
Durante il lockdown le emissioni di gas serra si sono ridotte e l'aria è diventata più pulita. Ma la battaglia contro l'innalzamento delle temperature si gioca sul lungo periodo
Da quando gli scienziati hanno cominciato a raccogliere i dati sulla temperatura superficiale della Terra si è registrato un aumento di circa un grado. In particolare, gli ultimi quattro decenni sono stati progressivamente sempre più caldi e ciò è decisamente insolito. C’è chi controbatte dicendo che milioni di anni fa faceva più caldo di adesso. È vero, in passato sono esistiti periodi con molta più CO2 e ai tempi dei licheni faceva molto più caldo, però i licheni erano la specie più evoluta e l’uomo non esisteva! Sebbene per periodi lontani nel tempo non abbiamo dati diretti, i carotaggi ci permettono di risalire a circa 800mila anni fa e ci consentono di affermare con certezza che, almeno nell’ultimo milione di anni, non c’è mai stata così tanta CO2 sulla Terra. In particolare, l’aumento delle temperature dell’ultimo secolo è insolito rispetto agli ultimi duemila anni. Questo riusciamo ad affermarlo grazie alla paleoclimatologia (la scienza che studia l’andamento del clima nelle epoche passate ricostruendolo attraverso dati glaciologici, geologici e biologici, ndr). Analizzando, ad esempio, gli anelli dei tronchi di alberi che arrivano ad avere 800 anni è possibile risalire a quali temperature c’erano in determinati periodi storici.
C’è, però, un aspetto al quale dobbiamo fare attenzione: l’aumento di un grado delle temperature medie globali non significa che tutto il pianeta si sta scaldando in maniera uniforme. Il calore viene, infatti, redistribuito in modo irregolare sul nostro pianeta che è un sistema caotico. Il Mediterraneo e l’Italia, per esempio, si scaldano un po’ più della media globale e se confrontiamo la temperatura media del periodo 1979-2000 con i valori dei primi decenni del 1800 notiamo un innalzamento di quasi tre gradi in quest’area geografica. Per questo si parla di estremizzazione del clima e delle precipitazioni. Per l’Italia i dati diretti originano già all’inizio del 1800 perché siamo stati noi, con Galileo, a inventare il termometro. Quello che possiamo affermare con certezza è, però, che l’intero pianeta si sta scaldando progressivamente, pur se in maniera non uniforme.
Qual è il livello di temperatura a cui ci dovremmo fermare? Si parla di una soglia a 2 gradi, ovvero di un aumento massimo della temperatura di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali. In realtà la scienza del clima ha da tempo dimostrato che nemmeno due gradi costituiscono una soglia di sicurezza. Il tema si è posto in particolare in occasione della sigla dell’accordo di Parigi del 2015 che ha fissato come obiettivo due gradi, con uno sforzo per fermarsi a 1,5 gradi. In seguito a questo accordo i 195 Paesi firmatari hanno chiesto agli scienziati dell’Ipcc (il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico fondato nel 1988 dalle Nazioni unite allo scopo di fornire ai decisori politici basi scientifiche sul cambiamento climatico, ndr) di produrre un rapporto speciale per spiegare la differenza fra le due soglie. Ne è emerso un rapporto che calcola il rischio associato ai diversi livelli di temperatura su vari tipi di impatti, dalla biodiversità agli eventi estremi. Per la biodiversità, ad esempio, il rischio associato a un aumento di due gradi è molto elevato, ma si prevedono conseguenze anche raggiungendo la soglia di 1,5 gradi.
Il ragionamento è, quindi, più complesso di quello tipicamente catastrofista secondo il quale avremmo pochi anni per salvarci prima di raggiungere la soglia di non ritorno. Non è così: non esiste una soglia di non ritorno per l’inizio della catastrofe perché sono già in corso diverse catastrofi parziali ed esistono tante soglie a seconda dei fronti considerati. La soglia di non ritorno per i ghiacciai delle Alpi, ad esempio, è già stata superata, mentre per altri aspetti le soglie sono ancora lontane. La soglia di 1,5 gradi andrebbe, quindi, interpretata più come l’obiettivo della battaglia politica sul cambiamento climatico che non come la soglia scientifica del disastro. Prima ci fermeremo, minori saranno le conseguenze.
Si fa un uso fraudolento dell’incertezza. Gli scienziati non sono mai d’accordo al cento per cento. Sull'esistenza dei cambiamenti climatici, però, il 99 per cento dei climatologi è d’accordo
Innanzitutto possiamo negare il problema. Da tempo leggiamo su alcuni giornali titoli del tipo: "Riscaldamento del pianeta? Ma se fa freddo". Cominciamo dicendo che c’è differenza fra i concetti di tempo meteorologico e clima e che si tratta di una differenza essenziale. Il tempo è quello che vediamo fuori dalla finestra e magari oggi ci sono dieci gradi più di ieri. Il clima è, invece, la temperatura media su un periodo lungo almeno dieci anni e su uno spazio più esteso della finestra di casa. Donald Trump ha prodotto svariati tweet sul filone: "Fa freddo quindi non esiste il riscaldamento globale". Peccato che il freddo in inverno non metta assolutamente in discussione il riscaldamento globale.
Sul tema si registra un uso fraudolento dell’incertezza. Gli scienziati non sono mai d’accordo al cento per cento, ma oggi la scienza del clima discute se a parità di emissioni arriveremo a tre o 3,5 gradi, non se i cambiamenti climatici esistano. Su questo il 99 per cento dei climatologi è d’accordo. E, soprattutto, sappiamo di più di quello che ci serve per agire.
In altri campi ambientali ci accontentiamo di molto meno per assumere decisioni rapide. Pensiamo, ad esempio, alle precauzioni sui prodotti farmaceutici o sui cibi dove basta una piccolissima probabilità che quel prodotto faccia male perché non venga più commercializzato. Questo tipo di negazionismo è stato ormai quasi sconfitto. Il vero nodo è che si continuano a rinviare azioni necessarie contro i cambiamenti climatici o si finge di affrontare il tema seriamente.
In Italia per tanto tempo abbiamo ammesso l’esistenza del problema, rimandandone, però, la soluzione per affrontare altre questioni come la crisi economica. Oppure abbiamo adottato la strategia del greenwashing, la cosiddetta pitturata verde, facendo finta di occuparcene, mentre il core business del Paese rimaneva lo stesso. Al di là dei milioni pagati ai negazionisti com’è già stato documentato negli Stati uniti, il problema è che esiste una resistenza a credere al riscaldamento globale perché accettare questa realtà mette in discussione la premessa ideologica di uno sviluppo senza limiti. La negazione del cambiamento climatico ha spesso a che fare con la rimozione di molti aspetti del nostro vivere in questa società. In aggiunta, noi non siamo fatti per occuparci di un problema che riguarda generazioni che vivranno secoli dopo di noi. Ci preoccupiamo dei nostri figli e dei nostri nipoti, le cui vite si sovrappongono alle nostre, ma non di ciò che accadrà nei prossimi secoli. I concetti di responsabilità e di danno della nostra morale comune non sono adatti per affrontare un tema come quello del riscaldamento globale.
Biodiesel che non lo sono. Attenti al "greenwashing"
Esistono già tanti modi per ridurre le emissioni. Il sole ci dà molta più energia di quella di cui abbiamo bisogno e non siamo obbligati a usare i combustibili fossili. Le energie rinnovabili stanno diventando sempre più efficienti e accessibili. Inoltre, ciò che siamo chiamati a fare per contrastare il cambiamento climatico è qualcosa che avrebbe comunque senso fare anche solo per i nostri polmoni perché bruciando i combustibili fossili immettiamo in atmosfera CO2, ma anche sostanze inquinanti.
C’è poi il tema delle guerre per l’approvvigionamento dei combustibili fossili: un mondo basato sulle energie rinnovabili potrebbe essere un mondo più giusto con meno disuguaglianze. Nel mio ultimo libro ho individuato 101 azioni possibili. Si tratta di azioni che noi stessi possiamo mettere in campo, ma servono poi azioni a tutti i livelli: Comuni, Regioni, Stato, Unione europea, individui. Tutti devono agire. Da un lato dobbiamo agire per ridurre le nostre emissioni, dall’altro sarà necessario adattarsi agli impatti già inevitabili, a partire dall’agricoltura che dovrà coltivare con meno acqua per sopperire allo scioglimento dei ghiacciai alpini. Per non scoraggiarci in partenza dobbiamo, però, anche essere consapevoli dell’inerzia del clima: anche se agiremo con grande decisione le temperature continueranno a salire di almeno un altro mezzo grado a livello globale. Se non faremo nulla, però, raggiungeremo aumenti di temperatura sicuramente molto più elevati di 1,5 o due gradi. In altri termini, se agiremo in maniera decisa, per uno o due decenni quasi non ci accorgeremo della differenza, ma lasceremo un mondo molto diverso. Quello che succederà nel 2100 dipende da quello che facciamo ora.
Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020
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