Il noi come maschera dell'io

Anziché essere "protagonisti del cambiamento", è meglio essere partecipanti. Il fondamento della partecipazione non è l'unanimità, ma il dialogo, che è anche conflitto

Roberto Merlo

Roberto MerloPsicoterapeuta

28 gennaio 2020

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Va di gran moda pensare che per produrre cambiamento – anche quello “giusto” e “corretto” – bisogna diventare protagonisti, modelli, condottieri o giù di lì. Anche nel sociale questa sembra essere la strada maestra: apparire, far parlare di sé, essere leader nei social e così via. Il contrario del protagonista è il partecipante, colui che è “parte di” questo mondo e contribuisce a renderlo abitabile in tutti i sensi possibili e per tutti coloro per cui può. Per partecipare si ha assoluto bisogno di essere persona in relazione con altre persone e non individui unici e “salvatori”. Da soli non si partecipa a niente.

Per il partecipante la fragilità e la parzialità sono virtù: nell’essere parte è implicito il fatto di non essere il tutto, pertanto la partecipazione esiste anche quando si è nel torto e nel difetto. La perfezione invece è unica e sola, presuppone solo sé stessa, non prevede l’esistenza di altre posizioni. Per il partecipante i fenomeni umani sono parola e significato né buono né cattivo, né accettabili né eliminabili: sono, prima di tutto, significati e significanti. Per il partecipante l’altro non è da cambiare, ma da con-patire e la comprensione dell’altro gli è indispensabile per conoscere sé stesso attraverso il confronto e l’identificazione delle similitudini e delle diversità.

Si potrebbe obiettare che questa posizione consente al tiranno e all’ingiusto di dominare e di compiere soprusi e abomini, rendendo necessario il sopraggiungere di un eroe che uccida il tiranno. Ma i partecipanti ricordano quanti eroi liberatori sono diventati tiranni e che sono le vittime, e non gli eroi, ad aprire alla speranza. Il pensiero qui non può non andare a Falcone e Borsellino. I partecipanti sanno che la partecipazione presenta dei “difetti” in nome dei quali viene relegata all’ultimo posto dei modelli delle interazioni sociali: si perde tempo, si rischia di non decidere e che altri decidano per te senza poterli fermare, si rischia di dare spazio ai protagonismi o alla volontà di soggiogare, alla furbizia e all’individualismo di alcuni. I partecipanti lavorano su tempi lunghi: decenni. Rifiutano i progetti e le strategie che promettono tutto, qui e ora. I partecipanti sanno anche che il fondamento della partecipazione non è l’unanimità, che serve solo per non decidere, ma il dialogo, che è anche conflitto.

Il presupposto del dialogo è l’esistenza di tante minoranze con posizioni diverse che cercano la dialettica e non il compromesso, come avviene in diverse forme di rappresentanza. Sanno anche che esistono regole di partecipazione che sono efficaci antidoti per furbi e narcisi come la pratica del dubbio e della falsificazione della decisione presa. La partecipazione, se è vera, genera l’innovazione e lo stupore. Non lo stupore di fronte allo “strabiliante”, ma quello che si esprime di fronte all’inaspettato, a ciò che sin a quel momento non era ancora stato visto, anche se presente. I partecipanti aborrono la moda della partecipazione, il “bisogna che tutti siano protagonisti” – paradosso mortifero – le assemblee come platea del parlare per essere approvati e così via. Sanno che la partecipazione è cammino incerto, è pellegrinaggio, è lavoro in team, è far fare, è processo e non atto o somma di atti. Insomma è come un fiume e un fiume non è solo acqua ma anche sponde. Senza sponde un fiume dilaga, si perde, si estingue.

Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020

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