Migranti? Portatori di speranza, non disperati

C'è una moltitudine di persone che conserva o acquisisce umanità coltivando la speranza in un futuro. Una "speranza disperata" e tuttavia preziosa, che la fortezza Europa e le politiche di respingimento stanno buttando a mare

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

28 agosto 2020

"Ma l’uomo non è mica un sasso!", fu uno dei primi insegnamenti che tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento l’antropologo Raymond Firth ricevette dagli abitanti di Tikopia, una minuscola isola polinesiana, ai confini con la Melanesia. A Firth l’isola appare una terra salubre e fertile e gli abitanti (“Noi, Tikopia”) dimostrano di essere fieri e sentimentalmente attaccati alla loro isola. Proprio per questo, l’antropologo rimane sconvolto nel vedere come i giovani si buttassero temerariamente in mare con le loro piccole canoe per raggiungere una nave ogni qualvolta si profilasse all’orizzonte. Perché questo gesto audace e sconsiderato? La risposta era appunto: l’uomo non è un sasso. Fa parte dell’essere umano oltrepassare i confini del “qui e ora”. Gettandosi in mare, nella “speranza” di raggiungere la nave all’orizzonte, i giovani di Tikopia cercavano con forza e determinazione un varco verso il futuro. In questo modo, essi compivano una sorta di rischioso esercizio, che consisteva – rubando l’espressione al filosofo Ernst Bloch (Il principio speranza, 1953-1959) – nell’"imparare a sperare", nel mettere a dura prova la loro capacità di sperare.

Di solito c’è empatia, quando di fronte alle vicende spesso tragiche dei barconi in mare (non solo nel Mediterraneo) consideriamo le persone che vi si ammassano come dei “disperati”. Non si vuole certo negare la disperazione alla base dei loro gesti. Si vuole però proporre un’integrazione di non poco conto, ovvero chiedersi se la decisione di abbandonare case e villaggi d’origine, di attraversare mari e deserti, di affrontare violenze, vessazioni, soprusi, stupri, sia frutto non già di “disperazione”, quanto piuttosto di “speranza”.

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