
Dare un nome a chi muore in mare

Paolo ValentiRedattore lavialibera

Aggiornato il giorno 7 gennaio 2021
La droga è uno dei problemi più drammatici del nostro tempo. Mi ci confronto con il Gruppo Abele da cinquant’anni. Un lungo periodo durante il quale ho incontrato – sulla strada, nelle prime accoglienze, in comunità, in carcere – migliaia di persone che con la droga hanno avuto a che fare. Giovani e meno giovani che ne facevano e ne fanno uso. E le loro famiglie, tutte segnate dalle stesse domande irrisolte: perché tutto questo e come uscirne? E poi educatori, operatori di comunità, medici, volontari, tutti quotidianamente a contatto con storie di dipendenza.
L’incontro con la disperazione e la speranza mi ha insegnato molte cose, due in particolare. La prima: le storie di droga ci riguardano tutti e chi ne fa uso non è altro da noi. La seconda: per affrontare il problema non ci sono vie facili e risolutive, soluzioni già pronte o bacchette magiche esibite da spacciatori d’illusioni. C’è stato un periodo, dall’inizio degli anni Settanta alla metà dei Novanta, in cui tra overdose, Aids, epatiti e altre malattie correlate, la droga causò la morte di circa 50mila persone. Una strage. Dovuta soprattutto all’eroina.
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Con i criptofonini, i clan della Locride gestivano il narcotraffico internazionale da San Luca, paese di tremila anime arroccato sull'Aspromonte jonico. Tramite il "denaro volante", sistema informale di trasferimento di valore gestito da cinesi, con contatti a Dubai, pagavano la droga ai cartelli sudamericani. Con il beneplacito dei paramilitari, tonnellate di cocaina partivano da Colombia, Brasile e Ecuador per poi raggiungere il vecchio continente grazie agli operatori portuali corrotti dei principali scali europei. L'ultimo numero de lavialibera offre la mappa aggiornata degli affari della 'ndrangheta, così per come l'hanno tracciata le ultime indagini europee, in particolare l'operazione Eureka