7 luglio 2020
Uno dei pochi aspetti positivi della clausura imposta per limitare i contagi da coronavirus è stato che tante persone hanno infilato le mani nella farina e sperimentato impasti, imparando e riconoscendo materie prime che fino a pochi mesi prima si erano perdute nelle forme e nei caratteri originali. Farina, uova, verdure e carta da forno per un certo periodo sono state praticamente introvabili, come se questa condizione ci avesse riportato verso l’essenziale. È un buon momento per porci delle domande: la farina, il pane, la pasta, il latte e latticini, la frutta e gli ortaggi di oggi sono come quelli di ieri? Se no, cosa sono diventati? Il latte di mucca di ieri che si nutriva di erba e fieno e produceva 12 o 15 litri di latte al giorno sono comparabili con i 40 litri di latte di adesso e una alimentazione fatta al 75 percento di soya e mais proveniente da Brasile e Usa? Il loro pascolo nei campi di un tempo e conseguenti concimazioni valgono come le unità di azoto chimico distribuito per ettaro? La loro longevità più che decennale è equiparabile al macello cui sono destinate oggi al secondo parto? La verità è che molta materia alimentare, per come è cambiata in profondità, dovrebbe mutare nome. Tuttavia, è necessario fare delle distinzioni.
Wallnofer Gunther, allevatore di latte fieno biologico dell’alta Val Venosta e promotore del primo referendum contro i pesticidi a Malles, porta personalmente al macello le sue bestie dopo che lo hanno accompagnato e servito per 13, 14 anni. Fa il possibile perché la sua carne rimanga nella sua comunità. Gunther considera come ineluttabile il sacrificio del suo animale, perché così stanno le cose in un ciclo per il quale questo sacrificio finale porta comunque un giovamento alla comunità umana della quale fa parte. C’è, quindi, una differenza epocale fra un allevamento intensivo e uno inserito in un sistema agro-ecologico e bisogna imparare a conoscerla e riconoscerla. Così come bisogna imparare a conoscere e riconoscere il cibo libero dall’asservimento e dall’ingiustizia che sviliscono l’uomo e la terra. Uno smodato sfruttamento colpisce anche i lavoratori della terra, i braccianti di ogni tempo e ancor più quelli di oggi, in ogni parte del mondo. Quando Yvan Sagnet, giovane presidente di NO Caporalato, combattiva associazione che si batte per i diritti dei lavoratori e la liberazione dalle moderne schiavitù, chiede un trasporto sicuro per i lavoratori che devono cambiare campo di raccolta ogni due o tre giorni e un tetto pulito sotto il quale dormire e lavarsi dopo il lavoro, chiede civiltà. Come quando rivendica contratti regolari per non diventare schiavi di faccendieri. La questione riguarda due milioni di persone nel sud Europa, o se si preferisce nella sponda nord del Mediterraneo, e pretende diritti umani per tutti.
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