19 maggio 2021
Da quattro anni e mezzo è caduta sulla città di Latina una bomba fatta di carte e parole: contiene le affermazioni di un pentito sui generis, il primo del clan autoctono e, non solo per questo, il più temuto e odiato. Viene attaccato platealmente e con parole durissime dalle famiglie rom perché considerato un "mezzosangue", visto che la madre è italiana, il padre è rom. Non è diventato famoso, perché non è un collaborante appartenuto alla mafia tradizionale né alla camorra, pur avendole frequentate entrambe.
È un uomo poco più che trentenne, ma già con una corposa biografia criminale. Ciò che racconta è alla base di tre procedimenti penali, di cui uno per voto di scambio, e alcune sue dichiarazioni hanno dato avvio a inchieste correnti. Tuttavia non è l'ambiente criminale l'unico a essere destabilizzato dalle sue parole, ma la città intera, Latina, capoluogo costruito dal nulla da Benito Mussolini, nonché la sua economia, la sua borghesia. Il "mezzosangue" ha un nome e un cognome che non richiamano affatto i rom. Non è Di Silvio, non è Ciarelli, non è Casamonica, non è Spada. Questo pentito si chiama Renato Pugliese, figlio del noto criminale Costantino Di Silvio, detto "Cha Cha". Ha il cognome della madre, per scelta di lei che non voleva che il figlio fosse identificato con i Di Silvio. La storia di padre e figlio si intreccia con quella del luogo in cui vivono. Apparentemente operosa e tranquilla, Latina viene disvelata come un centro di potere che galleggia sulla droga, tantissima ovunque, luogo in cui tutto ha un prezzo e ognuno è disposto a vendersi o comprare qualcosa o qualcuno.
È un giorno caldo di dicembre del 2016 quello in cui Renato Pugliese ha cominciato davvero a collaborare. È un ragazzo che si dice preoccupato per le donne della sua vita: la fidanzata, la mamma, la nonna. Davanti ai sostituti della Dda (Direzione distrettuale antimafia, ndr) prima di smascherare le pratiche dei gruppi criminali dei Di Silvio e dei Ciarelli, molti dei quali sono suoi parenti, fa una lunga premessa. Deve dire la verità, se vuole accedere ai benefici e, soprattutto, se vuole trovare un posto sicuro dove continuare a vivere.
La prima frase di Renato Pugliese ai pubblici ministeri è una confessione personale: "Ho pensato che se avessi collaborato, una volta uscito dal carcere avrei potuto cambiare del tutto la mia vita senza dover tornare a delinquere. Vorrei morire come sono nato, un bravo ragazzo. Quando ho iniziato a delinquere ero piccolo, ma non ce l'avevo nel sangue la delinquenza, mi ci hanno portato. Le ragioni per le quali mi sono determinato alla scelta sono da ricercare nel rapporto che da circa due anni ho instaurato con un poliziotto della squadra mobile, con il quale ho collaborato fornendogli informazioni confidenziali. Lui mi ha dato fiducia e credo abbia visto in me qualcosa di più delle azioni criminali che ponevo in essere, qualcosa di buono. Dopo aver riflettuto a lungo, mi sento assolutamente sicuro di volere cambiare vita. Sono preoccupato per quello che può pensare mio padre, detenuto in carcere, però sono assolutamente determinato. Ho avvisato mia nonna e mia madre che per un po' non dovranno vedermi. Temo anche ripercussioni su di loro e sulla mia compagna, con cui vivevo fino a quando mi hanno arrestato".
Il padre di Pugliese, soprannominato Cha Cha, è un criminale di calibro e lui se ne vanta, ne spende il nome, la credibilità. Spende anche molti soldi, che gli derivano dal traffico di droga. Li brucia alle slot, conosce quasi tutte le sale d'azzardo della città. Ma in apparenza ha una vita normale: quando viene raggiunto dalla misura cautelare per estorsione era un commesso in una concessionaria di auto "per vivere, perché mi ero giocato quasi tutto".
Racconta un territorio pieno di vizi, dove molto ha il sapore della cocaina che scorre copiosa in ogni angolo. Le sue parole restituiscono un ritratto urbano e sociale in cui il rumore della coca quasi si sente, nella scena dei grossisti che sbattono il sacchetto pesante, su un tavolo di legno. E si sente l'odore del fumo. E quasi si vede la scena dei giocatori d'azzardo.
Tutti attorno a Pugliese sniffano coca, a partire dai ragazzi che spacciano per suo conto. Quando descrive la suddivisione delle partite di cocaina è così preciso, che sembrano scorrere le immagini in sottofondo, come in una fiction americana. "Avevamo fatto quattro parti, una a me e una a ciascuno ai figli di Armando (Di Silvio, ndr), tranne uno che era in carcere". Racconta delle sue (e altrui) scorribande, Renato Pugliese. Descrive il quartiere di Tor Bella Monaca dove nella primavera del 2016 va ad acquistare 600 grammi di cocaina "della migliore qualità" al prezzo di 24mila euro; parla della scorta alla staffetta che porterà la droga nel quartiere Q4 a Latina e della sua fuga in ascensore, scappato senza pagare un centesimo.
Un video rap per affermare che Latina è "cosa nostra"
Sembra davvero di guardare una serie tv di successo. Con giovani uomini che caricano chili di droga e la portano sulla Pontina, contrattazioni a suon di migliaia di euro, beffe, botte, un gioco di bari di una vita percorsa come fosse un'avventura uscita dalla penna di uno sceneggiatore di grido. I soldi non costano nulla a questi giovanotti, il denaro arriva facilmente. Uno spacciatore medio incassa 40mila euro a settimana. Molti di loro, incluso Pugliese, quei soldi li giocano alle slot. "Angelo Travali ha il vizio del gioco, per questo è violento quando deve avere del denaro", dichiara Renato a proposito di quello che viene considerato un trafficante di primo livello a Latina.
Poi ci sono i cosiddetti "fragili", coloro che i soldi li scalano dai debiti. "Agostino Riccardo - aggiunge - la sua parte l'ha lasciata ad Armando Di Silvio, perché c'aveva un debito in quanto pure lui pippa la cocaina e infatti prima di me i Di Silvio vendevano sì la droga, ma non era buona. E lui, Agostino, lo sa, perché se la prende per sé. Invece quella che portavo io era ottima e quindi, se prima guadagnavano 100 euro al giorno, poi sono passati a 400 al giorno".
Le famiglie rom che vengono citate fanno paura a tutti e si temono anche fra di loro. O meglio: l’uno teme la spia dell’altro
Nessuno stupore, nessuna pietà per quel mondo. Le famiglie rom che vengono citate in quel racconto fanno un po' paura a tutti e si temono anche tra loro. O meglio: l'uno teme la spia dell'altro. Vendono droga nella zona della movida ma ne consumano anche molta, girano armati perché “non si sa mai”, c’è sempre il rischio di finire “sparato a una gamba”. È un pianeta violento, conosciuto all'esterno dai professionisti e dagli studenti che fanno la fila davanti alle case dove si vende "h24". I clienti sono ovunque, i fornitori pure. C'è il rifornimento di fumo bisettimanale per i ragazzini di una squadra di calcio, con un corriere specializzato. C'è la coca per gli avvocati, serviti direttamente da Armando Di Silvio, mentre a tutti gli altri clienti le dosi le vende la moglie, Sabina De Rosa, leggendaria figura del clan. Una donna inarrestabile - a suo dire - che "ha mantenuto la famiglia da sola quando tutti i figli erano in carcere e pure il marito. Non gli ha fatto mancare nulla, i vestiti, il mangiare, i soldi, tutto da sola".
Il rapporto tra Renato Pugliese e Cha Cha si era incrinato, quando il figlio è stato costretto a ripagare un debito della famiglia Travali ai Ciarelli, noti per la loro attività usuraia. Il padre non aveva mosso un dito o forse non ci era riuscito, tanto che Renato gli aveva fatto notare la perdita di importanza. Poi, a ottobre 2015, l'operazione Don't touch ha diviso i due per sempre e messo Pugliese nella delicata condizione di essere un possibile "infame", un traditore. Così lo guardava la criminalità locale sul finire del 2015, cioè poco più di un anno prima del suo pentimento ufficiale nel carcere di Frosinone, da dove sarà spostato quasi subito perchè considerato in pericolo, visto che in quel carcere c'erano gruppi vicini ai Di Silvio e all'ambiente dei trafficanti di Roma, i quali avrebbero potuto colpirlo agevolmente.
Era un uomo braccato e deluso dai suoi. Era il 2015, dopo l'arresto del padre e di Angelo Travali, il nipote di Velia Casamonica capace di smerciare droga per circa 40mila euro alla settimana, una persona violenta e temuta. La piazza, a quel punto, era rimasta libera, ma Pugliese era ormai un battitore indipendente, un cane sciolto. Da solo non poteva agire. E così si riavvicina alla famiglia di Armando Di Silvio essendo stato, peraltro, molto amico di uno dei figli, Pasquale Di Silvio. "Loro si lamentavano per gli scarsi incassi. Io gli feci una proposta, anche perché mio padre era detenuto ma c'era chi gli voleva bene. Quando c'è stato Don't touch mio padre e Gianluca Tuma litigarono per colpa dei Travali cui mio padre aveva dato retta. Io voglio bene a Tuma, mi ha sempre fatto lavorare prima in un forno, poi anche in un cantiere. Tuma fumava erba, aveva questo vizio, ma mi ha sempre incoraggiato a lavorare e a seguire gli studi". Gianluca Tuma è l'altro personaggio che entra in questo mondo, per il tramite del suo amico, Cha Cha appunto.
Uno spacciatore medio incassa 40mila euro a settimana. Molti di loro, incluso Pugliese, quei soldi se li giocano alle slot
Lo zio Armando Di Silvio lo aveva beffato nel 2016, quando non gli aveva dato la "giusta" quota dell'attacchinaggio dei manifesti elettorali di alcuni candidati di "Noi con Salvini" e delle elezioni comunali di Latina e Terracina. Uno sgarbo, il tradimento della famiglia, compensato tradendo la famiglia. Occhio per occhio, poiché Renato Pugliese si sente una persona importante, di rango superiore. Li aveva aiutati procurando cocaina gratis, moltiplicando i loro incassi, consentendo ad Armando Di Silvio e ai figli di guadagnare e ostentare ricchezza attraverso macchine costose. D’altronde, avere è essere, apparire è determinante in Italia, in provincia, a Latina e nei dintorni.
"Quando la malavita ti guarda vede chi ha i soldi, come si presenta, se ha una macchina potente, i gioielli. I Di Silvio hanno voluto dare un segnale alla strada, rappresentando che i loro affari li avevano fatti crescere e che il potere ora era in mano a loro. Le mie dichiarazioni non sono un tradimento dei Di Silvio, quello che faccio ora è perché loro, in realtà, mi hanno tradito. Io ho fatto del bene, con la droga intendo, gli ho portato la droga buona a un prezzo veramente di favore e loro poi, insomma avevo capito che pure Armando... cioè insomma io avevo fatto delle cose per loro e a me non me ne viene niente". Pugliese fornisce droga gratis o quasi ad Armando Di Silvio per ingraziarsi la fazione vincente in quel momento.
Il traffico di droga è stato, quindi, un altro dei filoni che hanno rinsaldato il rapporto tra Pugliese e Armando Di Silvio, detto "Lallà". L'altro è quello della politica, il filo diretto con alcuni candidati e rispettivi entourage che nella campagna elettorale del 2016 ha raggiunto il picco massimo. E, come in ogni parabola che si rispetti, è poi diventata la vera dannazione di questa storia, l'anello di congiunzione tra la criminalità locale e il livello dei colletti bianchi. L'ultima prova della città liquida e indicibile, la peggiore, la goccia che ha fatto traboccare un vaso maleodorante di rapporti fin lì solo ipotizzati o intravisti in vecchie inchieste.
La storia del padre e del figlio si intreccia con quella della città, delle categorie economiche, dello sport, della politica e dell’amministrazione
Nella campagna elettorale del 2016 politica e mafia locale si avvicinano troppo, fino a sfiorarsi. E a bruciarsi. Avrebbero dovuto solo collaborare, come sempre. Invece esagerano. E adesso di quella fase storica restano due processi in piedi. Il primo ha come principale imputata una ex consigliera regionale. Il secondo partirà a breve e tra i coinvolti c'è una controversa figura, un commerciante considerato il delfino di un imprenditore riconosciuto come il "colletto bianco" della ‘ndrangheta, trasferitosi dalla Calabria ad Aprilia.
Per tutto ciò che ha detto finora, Renato Pugliese è entrato nel mirino della sua ormai ex famiglia, come accade per molti pentiti. Ma in questo caso c'è qualcosa di altro e di più violento, doloroso e riguarda il suo essere un uomo "spurio", non del tutto rom. Viene deriso anche in aula in una sorta di discriminazione al contrario. Di Renato Pugliese, in pieno dibattimento, Armando di Silvio ha detto: "Quello non è uno zingaro, dice di essere uno zingaro come noi ma non lo è. Io sono un povero zingaro vero, lui non lo è, è solo un infame, un ludopatico". Dunque per la prima volta, forse, l'accezione “zingaro” viene rivendicata. E manca al "traditore" Pugliese.
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