Un video rap per affermare che Latina "è cosa nostra"

La clip pubblicata su YouTube e cancellata dopo poche ore è stata girata dalle nuove leve del clan: un inno ai fratelli Travali in carcere e la celebrazione della vita da spacciatori

Graziella Di Mambro

Graziella Di MambroGiornalista

9 marzo 2021

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La Scampia di Latina è stata consegnata con una bella cerimonia nel 1988 dal sindaco Delio Redi, democristiano, votatissimo, espressione della città “bianca e cattolica” vissuta accanto ai cuori neri del fascismo. Sei palazzoni di case popolari attaccati alla Pontina (la strada statale che collega Roma a Terracina, passando per Latina, ndr). Non hanno mai avuto un nome. L'intero quartiere non ha un nome, è tuttora un codice: “Q4”.

È in questo posto che si spaccia e si rischia di morire ogni giorno. Gli alloggi Ater (l'Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica) sono anche un deposito di armi, droga, coltelli, pezzi di auto e motorini rubati la notte e smontati il pomeriggio successivo. È il regno dei fratelli Angelo e Salvatore Travali, più Valentina e Vera con il marito, Francesco Viola, ex capo ultrà del Latina Calcio. È dentro questo pezzo di città senza capo né coda che è stato girato il video rap delle nuove leve del clan, un inno ai detenuti, i fratelli Travali appunto, e la celebrazione della vita da spacciatori con tanti soldi contanti e con “il ferro” (le pistole di cui il sodalizio ha sempre avuto ampia disponibilità).

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"L'ho scritto sui muri della cameretta: zio Bula esce in fretta"

La clip è piena di gesti simbolici: il segno di tagliare la gola, il segno di sparare con la pistola, la mimica del contare le banconote. E poi ci sono le frasi: “L'ho scritto sui muri della cameretta: zio Bula esce in fretta”; “Ho un amico, ma non è certo pentito”.

La clip, pubblicata su YouTube il 28 febbraio e rimossa dopo poche ore, è l'affermazione della supremazia sul territorio per chiarire ai concorrenti che a Latina “non si passa”

I protagonisti del video rap sono molto giovani, alcuni minorenni, uno è un bambino che non avrà nemmeno dieci anni. Secondo la squadra mobile di Latina, la clip, pubblicata su YouTube il 28 febbraio e rimossa dopo poche ore, è l'affermazione della supremazia sul territorio anche mentre i capi sono in carcere. Anzi, probabilmente è proprio il frutto di un ordine partito dai grandi detenuti ed eseguito dai piccoli per rendere chiaro ai concorrenti potenziali delle piazze di spaccio che a Latina “non si passa” perché, come si sente in un passaggio, “è cosa nostra”.

In poco più di tre minuti di immagini viene fuori la città peggiore, così simile a una periferia del Centro America da fare paura. La stessa che due sentenze hanno descritto come soggiogata da almeno 12 – e certamente fino al 2015 da due – clan di origine rom, potenti, ricchi, feroci, con amici e protezioni nella politica, nel mondo delle professioni, nelle istituzioni, persino in polizia.

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I processi, il primo pentito, il metodo mafioso

Latina, ex quartiere Q4
Latina, ex quartiere Q4

Il processo che con maggiore precisione ha raccontato cosa significa “stare a Latina” è Caronte, nato dalla gambizzazione di Carmine Ciarelli, il re dell'usura a Latina, figlio del capostipite Antonio, ossia l'uomo che nel 1996, da solo, ha impedito che il clan dei Casalesi mettesse piede nell'ex palude. A Carmine Ciarelli spararono alle gambe mentre entrava nel bar del suo quartiere per prendere un caffè: era il 25 gennaio del 2010, nelle 48 ore successive furono ammazzate due persone, per rappresaglia.

Il processo è stato sostenuto dalla procura ordinaria nonostante le modalità usate richiamassero il metodo mafioso e in tutti gli atti si indichino testualmente il clan Di Silvio e il clan Ciarelli, entrambi di etnia rom. Per arrivare a contestare il metodo mafioso ai Di Silvio bisognerà attendere giugno 2018. Ai Ciarelli, invece, non è stata mai attribuita la qualità mafiosa delle loro azioni criminali, tranne nell'ultimo arresto di Luigi, un altro dei figli di Antonio, specializzato in traffico di droga.

Ma nel frattempo è accaduto dell'altro. A ottobre 2014 la squadra mobile di Latina mette a segno l'operazione Don't touch: finiscono in carcere per estorsione e reati di droga Angelo e Salvatore Travali, nonché Costantino Di Silvio detto Cha Cha, loro zio di secondo grado. Cha Cha è un criminale molto temuto e stimato, amico fraterno dell'ex deputato di Fratelli d'Italia, Pasquale Maietta, grazie al quale contava moltissimo nella squadra di calcio di cui Maietta era il presidente.

Con il vertice in galera le cose cambiano nel gruppo Travali. Molti nel mondo della droga e dell'usura si spostano verso il sodalizio che fa capo ad Armando Di Silvio e tra i transfughi c'è un nome eccellente: Renato Pugliese, il figlio di Costantino Di Silvio Cha Cha. È vicina la rivoluzione: Pugliese viene arrestato a settembre del 2016 per un'estorsione fatta insieme a due zingari violenti di Latina, figli di Armando Di Silvio. Tre mesi dopo si pente, è il primo collaboratore di giustizia del potere criminale degli zingari di Latina. Da dicembre 2016 comincia a parlare e farà rivelazioni che consentiranno di sollevare il velo sulla mafia autoctona della città fondata da Mussolini.

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La genesi nel 2014 e la testimonianza chiave di Roberto Toselli

Per comprendere come si è arrivati ai primi arresti di Don't touch nel 2014 bisogna tornare ai palazzoni del Q4, dove è stato girato il video rap. Lì vive un giovane tossicodipendente, uno dei tanti che si riforniscono dai Travali. Un giorno di settembre 2014 quel ragazzo chiama la polizia e dice che ha paura di morire. Viene convocato in questura dove comincia a descrivere l'assetto di Latina, dice che due gruppi di zingari “comandano tutto”, ma poi non se la sente di firmare il verbale. Tuttavia, quelle dichiarazioni consentono agli investigatori di avviare le intercettazioni che produrranno gli arresti di Don't touch. Per il ragazzo minacciato invece comincerà l'inferno: si chiama Roberto Toselli e la sua storia è l'incipit della prima inchiesta di mafia a Latina: Alba Pontina.

Roberto Toselli sapeva di essere in pericolo nel carcere di Latina e aveva paura di chiedere il trasferimento in un’altra struttura "perché i Travali avevano aderenze dovunque"

Alle 20.30 del 10 maggio 2016 nella cella numero 8 della sezione isolamento della casa circondariale di via Aspromonte, gli agenti della polizia penitenziaria salvano in extremis il detenuto Roberto Toselli, che ha tentato di togliersi la vita. Due giorni dopo, quando si rimette, il ragazzo viene sentito dai magistrati della procura di Latina. Appare molto scosso. Dice: "C'è qualcosa che mi blocca". Poi confessa. Cinque giorni prima era stato in tribunale per essere sentito come teste al processo Don't touch e raccontare quella storiaccia di intimidazioni e usura subita a settembre del 2014 quando era libero. I suoi aguzzini erano i fratelli Angelo e Salvatore Travali e quel giorno avrebbe dovuto ripetere l'accaduto in aula. Ma l'udienza viene rinviata e, appena Toselli rientra in carcere, viene avvicinato da un altro detenuto, il quale gli riferisce di un ordine dei fratelli Travali, "un'imbasciata" giunta dentro il carcere affinché Toselli fosse picchiato e mandato in isolamento. Chi doveva eseguire l'ordine non porta però a termine la missione e suggerisce a Toselli di chiedere volontariamente di andare in isolamento per tutelarsi. Cosa che fa. Ma in preda al panico di possibili gravi violenze, che avrebbe potuto in qualche modo subire lì dentro, crolla e tenta il suicidio.

Sapeva, Roberto Toselli, di essere in pericolo nel carcere di Latina e aveva paura di chiedere il trasferimento in un’altra struttura "perché i Travali avevano aderenze dovunque". La moglie era stata avvicinata e minacciata con intimazione a lasciarlo, tutto in prossimità della famosa udienza di Don't touch, processo nel quale ha poi testimoniato e le dichiarazioni sono state tra i cardini su cui poggia la condanna dei suoi aguzzini.

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Una città violenta e silente

Questa era la città che si preparava a votare per il rinnovo del sindaco dopo l'ondata di arresti di politici e imprenditori per scandali urbanistici, nell'autunno del 2015. Toselli conosceva quella città violenta, era anche lui uno che "viveva la strada". La sua particolare vicenda personale apre il paragrafo delle motivazioni della sentenza di primo grado di Alba Pontina e fornisce uno spaccato di cos'era l'ex borgo mussoliniano negli anni 2000, cosa accadeva nel 2014, quando ancora i figli di Armando Di Silvio non erano potentissimi ma si dividevano già il territorio con la famiglia Ciarelli e, soprattutto, con i due fratelli Angelo e Salvatore Travali, due figli d'arte pure loro. Sulla scena, ma molto sullo sfondo, c'era Renatino Pugliese, offuscato dall'immagine del papà, Costantino Di Silvio, allora libero.

La mappa del potere criminale e il dominio dello spaccio di cocaina non si erano ancora rimodellati. Toselli diventa una delle persone offese nel procedimento denominato Don't touch per quella richiesta di aiuto alla polizia. Aveva un grosso debito e temeva di essere ammazzato. Gli estorsori di cui parlava si erano già recati presso il suo appartamento per chiedere le rate arretrate sotto la minaccia di morte, a meno che non avesse consegnato le chiavi della casa. A minacciarlo erano stati Angelo e Salvatore Travali, con Francesco Viola, loro cognato e ultrà del Latina Calcio.

In un primo momento, come spesso capita a Latina, la vittima anziché rivolgersi alla giustizia ordinaria chiama Costantino Di Silvio Cha Cha, zio dei Travali, e gli chiede di intercedere per ridurre il debito che nel tempo aveva raggiunto una cifra esorbitante. I due fratelli Travali erano allora i padroni di un pezzo di città, forti sia del loro pedigree familiare sia della violenza che avevano saputo mettere in campo. Insieme ad Angelo Morelli e ad Agostino Riccardo (divenuto collaboratore di giustizia nel 2017) si erano occupati anche di alcune campagne elettorali, per esempio quelle del 2013 per le politiche e le regionali. Questo elemento specifico verrà confermato in seguito da entrambi i pentiti del clan, in particolare da Renato Pugliese, che entra nell'affare dell'attacchinaggio (il compito di attaccare manifesti nell'ambito dell'attivismo politico o sindacale, ndr) in modo preponderante solo nel 2016.

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I due Travali potevano peraltro avvalersi della forza della loro famiglia stretta: il padre Ermanno D'Arienzo, detto Topolino, fa parte della vecchissima guardia della criminalità di Latina ed è tenuto in grande considerazione anche adesso che si è ritirato a vita privata a Sabaudia. La mamma, Maria Grazia Di Silvio, è la figlia di Costantino Di Silvio e della meno nota, ma assai influente, Velia Casemonica (in realtà il cognome, mal registrato all'anagrafe di Latina, è Casamonica), sorella di Vittorio Casamonica.

Il rango elevato di Maria Grazia è ciò che la rende uno dei personaggi più rispettati dell'intera rete dei Di Silvio. Lei stessa ama scandire: "Io sono una zingara". Ha avuto molti figli: Angelo e Salvatore sono stati riconosciuti da Giuseppe Travali, detto Peppe lo zingaro; Alessandro Anzovino è il più piccolo, quello che ancora minorenne ha messo nei guai tutta la famiglia, compresa la nonna, per una fuitina con la figlia di Armando Di Silvio nella primavera terribile del 2010, caratterizzata da violenze e gambizzazioni in serie dentro una città silente, avvolta dalla nube scura della criminalità autoctona. Morsa che verrà riconosciuta come un danno oggettivo alla municipalità, ammessa quale parte civile al processo Alba Pontina perché ne ha avuto un'immagine rovinata, con effetti sia sul piano turistico sia economico. E con lo stesso parametro la Regione Lazio è stata risarcita quale ente esponenziale, peraltro danneggiato oltremodo dalla "condotta intimidatoria che aveva condizionato i voti espressi nel corso delle elezioni indette nel territorio della Regione" in quel maledetto maggio del 2016.

Il termine di carcerazione dei fratelli Travali stava per scadere quando a metà febbraio sono stati raggiunti da una nuova ordinanza per l'inchiesta Reset, che ha scatenato la rabbia e l'orgoglio dei piccoli della famiglia, autori del video girato ai palazzoni e promozionato sui social con tanto di firma e contatto Instagram. La clip è stata girata da un altro giovanissimo di Latina, Francesco Lifranchi, con la partecipazione diretta come attori e cantanti rap di “Papu”, “Gibbi”, “Fraschio”, “Spino” e gli hashtag #freegarba, #freepalletta (nomignolo di Angelo Travali), #freebula (Salvatore Travali).

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