9 luglio 2021
“Sto in mezzo alla strada da quando avevo tredici anni e sono stufo”. È iniziata con questa frase, a Latina, la collaborazione con la giustizia di Renato Pugliese. Molto prima di diventare un atto formale, è stato uno scambio di battute con un poliziotto, Mirko, quasi un coetaneo, che per lavoro frequentava i quartieri di spaccio ed estorsione del clan in cerca di appigli buoni per un’indagine. Un tentativo difficile, quasi disperato, perché nessuno era disposto a raccontare il “mondo di merda” che si nasconde in città, dove membri del clan rom sono soliti picchiare i debitori, pestandoli a sangue con le cinture di cuoio. Alcune delle vittime giravano con gli occhi neri e il sangue incrostato sotto al naso, per giorni, senza per questo mai ammettere chi li avesse ridotti così. Tutti zitti, pure con i familiari, e chi parlava, poi ritrattava. Le inchieste in queste condizioni erano un inferno. Occhi contro occhi, il rom e lo sbirro, erano due mezzi sconfitti. Per uno era difficile tradire. Per l’altro era difficile indagare. Si vedevano al bar, era un'abitudine, un modo per non perdersi di vista. Parlare tra diversi è lecito, soprattutto a Latina.
Il pentito "mezzosangue" racconta una Latina inondata dalla cocaina
L’amicizia tra il poliziotto e il futuro pentito nasce in quel liquido amniotico che è la rete dei tradimenti e delle parole accennate tra investigatori e criminali, sempre sospeso, sospetto, ambiguo, talvolta perverso. A Latina, sono state molte le indagini contaminate dalle soffiate degli stessi inquirenti, alcune inchieste sono finite sul binario morto proprio per questa ragione. Lo ha spiegato il procuratore Michele Prestipino nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare antimafia, a gennaio del 2020: in città c’è stata permeabilità di alcuni apparati investigativi e ciò ha pesantemente danneggiato alcune indagini. Un corto circuito sottovalutato e sottaciuto per molto tempo. Le indagini hanno “accertato una serie di condotte non proprio edificanti da parte di appartenenti alle forze dell’ordine, che sono stati individuati e oggetto di accertamenti nelle sedi di competenza”, ha riportato Prestipino, riferendo che “alcuni episodi di fughe di notizie avevano sostanzialmente vanificato le operazioni”.
In città c’è stata permeabilità di alcuni apparati investigativi e ciò ha pesantemente danneggiato alcune indagini
La sera decisiva risale al 2014. Renato Pugliese stava rientrando a casa pochi minuti prima delle 22, come prescritto dal regime di sorveglianza speciale. La polizia gli stava alle calcagna e lui sapeva di essere seguito. Ma quella volta Pugliese si è fermato, si è avvicinato alla macchina della volante, ha sorriso dentro il bavero del suo Fay e detto: “Guardate che tante cose è inutile che le fate perché dentro la questura ci sono delle spie, e noi sappiamo tutto”. Tredici ore dopo Pugliese è stato chiamato in questura per comunicazioni. “Ci sono andato ma ho chiesto di incontrare quel poliziotto di cui mi fidavo perché sapevo che lì dentro qualcuno faceva la spia, quindi… ho parlato con lui ma non dentro la questura, ci ho parlato privatamente, gli feci delle confidenze per un paio di anni. Il rapporto di amicizia è nato successivamente perché io non lo conoscevo per amicizia ovviamente. Il rapporto inizialmente era confidenziale, l’amicizia è nata dopo”.
“Guardate che tante cose è inutile che le fate perché dentro la questura ci sono delle spie, e noi sappiamo tutto”Renato Pugliese
Correva l’anno 2009 quando è emersa la prima, terribile, smagliatura degli apparati investigativi. È successo nell’ambito di un’indagine che coinvolgeva una pletora di amministratori e funzionari comunali e, tra gli indagati eccellenti, un avvocato che, sei anni più tardi, è risultato tra le vittime del clan Di Silvio. Un processo che poteva scoperchiare “un’altra tangentopoli” in città se non fosse stato per un “protettore” degli indagati, una persona con forti legami con quell’ufficio. La fuga di notizie è avvenuta tra dicembre 2008 e gennaio 2009 in relazione a un procedimento relativo a un giro di truffe alle assicurazioni. In un rapporto del 30 aprile 2009 i carabinieri di Latina relazionavano su un appartenente al reparto Ros (Raggruppamento operativo speciale) di Roma, che "avrebbe riferito a Vincenzo Zaccheo (sindaco allora in carica, ndr) notizie relative a indagini in corso". Il procedimento in questione era in effetti a carico di Maurizio Galardo, l’allora vicesindaco, e la spia venne individuata in un appuntato, che aveva riferito a un collega di essersi rivolto a un importante politico di Latina per ottenere un trasferimento. Sta di fatto che, all'inizio del 2009, il vicesindaco venne a sapere dell’esistenza di un'indagine a suo carico e che erano state installate cimici nel teatro comunale, da lui frequentato in quanto assessore alla cultura.
L'11 gennaio 2009 il capo di gabinetto del sindaco, Agostino Marcheselli, al telefono col vicesindaco parlava dell'indagine, commentando: "È come fosse un'altra tangentopoli". Da quel momento non ci furono più conversazioni utili circa i reati nella pubblica amministrazione, per i quali infatti venne chiesta l'archiviazione. Andò avanti per un po’ solo il filone originario delle truffe per finti incidenti, dove il vicesindaco Maurizio Galardo figurava nelle vesti di medico. In quel medesimo procedimento risultava indagato un nome altisonante della criminalità dell'Italia centrale, ossia Antonio Ciarelli, oggi 80enne, capostipite dell'omonima famiglia rom e padre di Carmine, l'uomo per il quale si è scatenata la faida criminale di Latina nel 2010 e che ha prodotto due morti e sei attentati. Ecco cosa veniva contestato al vicesindaco di Latina in concorso con Ciarelli: "Galardo Maurizio in qualità di medico e Ciarelli Antonio quale presentatore della domanda, con artifici e raggiri consistiti nel redigere falsa certificazione medica attinente alle condizioni di salute di Ciarelli Antonio e nel presentarla presso la Commissione medica presso la Asl di Latina per il riconoscimento del livello d'invalidità, inducevano in errore la Commissione medica e l'Inps". Quell’inchiesta, però si trasformò in groviera, i reati vennero prescritti e si perse la prima vera traccia del rapporto tra Comune ed esponenti del clan rom.
"È come fosse un'altra tangentopoli"
Con le parole di Renato Pugliese agli uomini della volante, circa l’esistenza di spie in questura a Latina, nel 2014 si apre uno squarcio. Il futuro pentito ha indicato al poliziotto una serie di elementi che sono risultati fondamentali per l’indagine “Don’t touch”, la stessa che ha portato in carcere un anno dopo sia il padre di Pugliese, ossia Costantino Cha Cha, sia gli odiatissimi fratelli Angelo e Salvatore Travali, nonché Gianluca Tuma, imprenditore di Latina e socio di Cha Cha nella gestione della società sportiva Campo Boario. In quell’inchiesta è finito indagato un agente della squadra mobile accusato di essere una spia, condannato in primo grado ma poi assolto in Appello e in Cassazione. Dal racconto di Pugliese è emerso che di spie ce n’erano ovunque. Dentro la questura a beneficio dei rom, ma anche tra le due famiglie rom a beneficio della questura. Ecco cos’era la battaglia corpo a corpo tra legalità e illegalità a Latina, uno scontro giocato sul filo sottile che divide la perdizione dalla resurrezione, la melassa indecente dall'equilibrio democratico.
A Fondi la difficile sfida dello Stato alle mafie del mercato
Però non finisce qui. L'elenco dei casi in cui questura e procura sono state considerate un porto dove ripararsi grazie a qualche “amico” è purtroppo assai lungo. L’inchiesta sul caso Fondi ha svelato che un anonimo barbiere riusciva ad accedere a informazioni sull’esito di alcuni procedimenti. In un’inchiesta per corruzione alla sezione fallimentare del Tribunale di Latina, un giudice è stato beccato mentre andava alla Digos per avere informazioni su eventuali indagini a suo carico, senza ottenere nulla, ma riuscendo comunque a recuperare qualche rivelazione da una talpa in Procura, ingannata forse proprio per il suo ruolo di giudice presso il Tribunale di Latina.
La telefonata della talpa avvenne da un numero interno alla Guardia di Finanza di Latina e lo si è scoperto per caso
Nell’inchiesta sull'onorevole Pasquale Maietta e il Latina calcio del 2016, l’allora deputato era riuscito ad avere informazioni su un’indagine a suo carico un anno prima della conclusione della stessa. Nelle tre inchieste Touchdown, Super Job e Dusty Trade, tutte su un grosso giro di cooperative utilizzate per frodare il fisco per un valore calcolato intorno ai 90 milioni di euro, i principali indagati vengono “aiutati” da due finanzieri, poi allontanati dal servizio. Nell'inchiesta denominata Alba Pontina sul clan Di Silvio, la soffiata più clamorosa è arrivata da un commerciante di nome Marcello Fusco, detto zi' Antonio e considerato inserito nell'entourage di Sergio Gangemi, a sua volta ritenuto pedina della ‘ndrangheta in provincia di Latina. Fusco chiamò al cellulare di Gianluca Di Silvio, in uso ad Agostino Riccardo (che poi diventerà collaboratore di giustizia) per avvisarli di non andare all'appuntamento con la vittima di un'estorsione, un commerciante che avrebbe dovuto consegnare di lì a qualche ora i soldi. L'appuntamento era nel parcheggio di un centro commerciale. Fusco chiamò l'utenza di Di Silvio dal centralino della Guardia di Finanza di Latina, rovinando il blitz della squadra mobile. La vicenda è stata confermata in aula al processo Alba Pontina dall'allora capo della mobile.
"Io t'ho detto non devi anna', ok? Tu m'hai risposto non sto da solo. A me se sei uno, se in sette poi decidete voi che dovete fare, io ti dico che non ce devi anda'!"Marcello Fusco - Intercettazione
La pubblica accusa ha chiesto per questa soffiata la condanna di Marcello Fusco a un anno e sei mesi di reclusione nell'udienza che si è tenuta il primo luglio. La spia fu molto precisa in quella telefonata, raccomandò a Riccardo di non andare all'appuntamento con l'imprenditore: "...alle sei e mezza non andà da nessuna parte, dà retta a Marcello, ascoltame bene quando parlo, non me fraintende.. io t'ho detto non devi anna', ok? Tu m'hai risposto non sto da solo. A me se sei uno, se in sette poi decidete voi che dovete fare, io ti dico che non ce devi anda'!... se me capisci! Non ce devi anda'.. Però, non è che domani dici no domani poi risolvo, io non risolvo un cazzo! Ma te dico che non ce devi anda'!". La telefonata della talpa avvenne da un numero interno alla Guardia di Finanza di Latina e lo si è scoperto per caso, poiché caduta la linea della prima chiamata, Riccardo, richiamando il numero di provenienza, si è trovato a parlare con il centralino del comando provinciale della Finanza di Latina.
Deve essere questo l’elenco di episodi che il procuratore Prestipino aveva tra le mani quando è stato audito in Antimafia e ha parlato di difficoltà nelle indagini a Latina e della necessità di un rinforzo delle forze dell’ordine tramite uomini dello Sco (Servizio centrale operativo).
E deve essere stato questo, oltre a tutto il resto, ad aver attivato l'allarme quando in città si è compreso che il rom, forse, stava iniziando a parlare troppo con un poliziotto. Questo sospetto, poi certezza, ha fatto scattare una sorta di strategia difensiva, che ha cercato di isolare Renato Pugliese.
Il primo ad accorgersene, come da copione, è stato proprio Pugliese, profondo conoscitore dell'ambiente multiforme che lo circondava. "Ultimamente... erano un po' cambiate le cose, se la prendevano un po' tutti con me perché erano un po' gelosi e non lo so, non sto nella testa delle persone perché facevano questo, a parte poi magari non pagare la cocaina a qualcuno, lì è diverso, lì è normale, te lo aspetti a prescindere se te lo dicono o no". Era il 2016, quasi dieci anni dopo le prime soffiate che rovinavano le indagini.
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