Migliaia di cittadini alla manifestazione per ricordare i bombardamenti della Nato in Serbia, nella città di Nis. Djordje Savic/Ansa
Migliaia di cittadini alla manifestazione per ricordare i bombardamenti della Nato in Serbia, nella città di Nis. Djordje Savic/Ansa

Fiori per impedire a Putin di governare

Srdja Popovic è stato l'uomo che ha fatto delle tattiche non violente un sapere esportabile. Ha supportato la rivoluzione arancione in Ucraina nel 2014, oggi crede nella resistenza del Paese

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

17 maggio 2022

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Di lui dicono che butti giù tutto: piatti, bicchieri, regimi. Un rivoluzionario pasticcione. Srdja Popovic ha imparato quasi tutto ciò che sa a Belgrado, tra le fila di Otpor! (Resistenza!): movimento non violento che ha avuto un ruolo decisivo nella caduta di Slobodan Miloševic, l’ex presidente della Serbia e della Repubblica federale di Jugoslavia accusato di crimini di guerra. Popovic era un diciottenne che voleva solo essere libero di ascoltare musica rock. Oggi insegna movimenti politici al Colorado college e in sei università degli Stati Uniti, dove vive da qualche anno. È stato l’uomo che ha fatto dell’azione disobbediente un marchio e un sapere esportabile.

La guerra in Ucraina legittima il riarmo 

Una delle sue tattiche preferite è l’umorismo, per esempio: c’è stato un periodo in cui la moglie di Miloševic indossava sempre un fiore bianco tra i capelli, così i ragazzi di Otpor! hanno avuto l’idea di metterne un paio sulla testa di alcuni tacchini che i poliziotti sono stati costretti a inseguire per le vie della città. "L’effetto è stato esilarante", ricorda Popovic. Fondamentale è l’ascolto per capire le battaglie a cui è interessata la gente: è il caso di Harvey Milk, il primo gay dichiarato che è riuscito a farsi eleggere a una carica pubblica della California solo dopo aver fatto propria la battaglia per la pulizia delle strade.

“Bisogna evitare un conflitto diretto con la Nato. Putin lo cerca disperatamente: dimostrerebbe che ha ragione, unirebbe la popolazione russa e anche la famiglia dei dittatori sparsi per il globo”

Canvas (acronimo di Centre for applied non violent action and strategies), l’organizzazione non profit e non governativa di cui è direttore esecutivo, ha lavorato con gli attivisti di oltre 40 Paesi. I legami con la rivoluzione delle rose in Georgia e con quella arancione in Ucraina gli hanno attirato le antipatie di Mosca. La notorietà è stata seguita anche da accuse e sospetti che lui considera parte del gioco: "Se mi avessero dato un euro per ogni volta che qualcuno ha accusato Canvas di essere al servizio di un governo straniero, guiderei una Porsche".

Il commento di Rosy Bindi: "La guerra in Ucraina è una follia"

Popovic non risparmia critiche alla Nato, di cui ha vissuto i bombardamenti, ma non crede sia tra le ragioni che hanno spinto il presidente russo Vladimir Putin a invadere l’Ucraina. Empatizza con i russi all’estero che stanno vivendo lo "stesso ostracismo e la stessa repulsione" che ha vissuto lui vent’anni fa, dopo Srebrenica, quando "essere serbo significava incontrare gente convinta che mangiassi croati per colazione e musulmani bosniaci per cena". Pensa che le tattiche non violente abbiano permesso agli ucraini di conquistare democrazia e libertà, "che ora sono costretti a difendere con le armi", e sono il motivo per cui Putin ha già perso la guerra: "Non si possono fermare i cannoni con i fiori, ma strategie non cooperative e pacifiche possono impedirgli di governare".

“La guerra ha reso evidente un fatto: se tolleriamo i regimi che violano i diritti umani è per via della dipendenza dalle fonti fossili. I Fridays for future hanno ragione: se non investiamo nelle rinnovabili il nostro pianeta non ha futuro”

La Nato ha qualche responsabilità in ciò che sta accadendo?
Il presidente russo non ha mai avuto paura della Nato ai propri confini. Ha paura del successo della democrazia in un Paese molto legato alla Russia e con un linguaggio simile. Da un lato, c’è una cleptocrazia in cui un ex agente dell’Fsb, il servizio di sicurezza federale russo, è al comando da oltre 20 anni. Circa 400 tycoon controllano il 50 per cento della ricchezza del Paese e un terzo della popolazione vive con pochi euro al giorno. L’unico modo di mantenere in piedi questo sistema corrotto è far sì che chi è al potere non debba dare conto del proprio operato. Dall’altro lato, c’è l’Ucraina: uno Stato in cui la maggior parte delle persone ha dimostrato a più riprese di volere libere e giuste elezioni. La prima volta nel 2003 e poi nel 2014, quando migliaia di cittadini sono scesi in piazza per protestare contro Viktor Janukovyc: il presidente fantoccio di Putin, costretto alla fuga. La rivoluzione di Maidan ha reso la democratizzazione e l’avvicinamento all’Unione europea irreversibili ed è stato allora che Mosca ha iniziato a temere. Proprio in quei giorni le truppe russe hanno invaso la Crimea.

Fino a che punto l’Occidente deve essere coinvolto?
La resistenza ucraina va supportata, ma bisogna evitare un conflitto diretto con la Nato. Putin lo vuole disperatamente: dimostrerebbe che ha ragione a sostenere che il nemico è la Nato, unirebbe la popolazione russa, e anche l’adorabile famiglia dei dittatori sparsi per il globo, che si schiererebbe al suo fianco.

Le sanzioni funzionano?
Dipende. Negli anni Novanta la Serbia ha fatto da topo da laboratorio per ogni tipo di sanzione. L’embargo sul petrolio non ha avuto alcuna ricaduta su Miloševi?, ma ha trascinato tutta la classe media nella povertà: mio padre, un conduttore di punta del telegiornale della tv di Stato, doveva vendere benzina contrabbandata per guadagnare qualche soldo. Costretta a una lotta per la sopravvivenza, la popolazione non ha avuto modo di pensare a ciò che stava succedendo, né di lavorare a un possibile cambiamento sociale. Invece le sanzioni verso le élite hanno funzionato abbastanza bene. Credo stia accadendo lo stesso in Russia, almeno sul piano simbolico. Ma in questo caso parlare di sanzioni senza smettere di importare gas da Mosca equivale a fare discussioni vuote. La guerra ha reso evidente un fatto: se tolleriamo la violazione dei diritti umani da parte dei vari Putin del mondo è per via della dipendenza dalle fonti fossili, i cui principali esportatori sono i peggiori regimi. I Fridays for future hanno ragione: se non investiamo nelle rinnovabili il nostro pianeta non ha futuro. Vale per l’ambiente, ma anche per la democrazia.

Le tattiche non violente hanno spazio nel conflitto Ucraino?
Sono la ragione per cui Putin ha già perso la guerra. Ammettiamo che vinca sul piano militare, non riuscirà mai a governare il Paese. Una super potenza militare come gli Stati Uniti non è stata capace di mantenere il controllo dell’Afghanistan, in pratica un enorme deserto, come può Putin anche solo immaginare di governare 42 milioni di persone? Gli ucraini hanno alle spalle movimenti non violenti di successo e adotteranno strategie di non cooperazione che, unite alla pressione internazionale, hanno dimostrato di funzionare in altri contesti, come il Sud Africa durante l’apartheid. Già nelle scorse settimane abbiamo visto decine di cittadini disarmati tentare di fermare i mezzi russi bloccandogli la strada. Mosca può anche riuscire a occupare il territorio, ma poi chi pagherà le tasse? Chi guiderà i treni?

Se avesse l’opportunità di insegnare a Putin strategie non violente, che gli direbbe?
Putin ci studia già. Come prevenire le rivoluzioni colorate è un corso obbligatorio all’università statale russa. Il conflitto strategico non violento è diventato una sua ossessione, soprattutto dopo la rivoluzione delle rose in Georgia. Gli direi di studiare la democrazia: è evidente che non la capisce.

Che ne pensa delle proteste contro la guerra in Russia? 
È strabiliante che Putin abbia dovuto arrestare oltre 18mila persone dall’inizio del conflitto a oggi, considerata la pervasività della propaganda pro-guerra. Ma credo che a mobilitarsi di più contro l’invasione dell’Ucraina saranno i russi fuggiti all’estero. Questa diaspora, fin ad ora molto sottovalutata, avrà un ruolo fondamentale nel far capire al mondo che Putin non è la Russia. All’interno del Paese continueremo a vedere sempre più atti di protesta isolati e sporadici, però la creazione di un movimento organizzato al momento mi sembra improbabile.

Perché?
Di rado questi movimenti sono attivi in tempo di guerra, quando il livello di oppressione è falsamente giustificato dal conflitto in corso. E poi Putin ha di fatto sradicato ogni opposizione: i suoi critici sono stati arrestati, espulsi, o avvelenati. Di certo un conflitto lungo non gioca a suo favore. Ha presentato le forze armate di Mosca come onnipotenti e l’invasione Ucraina come questione di poche settimane, ma più passa il tempo e più è probabile che le persone comincino a interrogarsi. È necessario che la caduta di Putin sia il risultato di una spinta interna, non può essere frutto di un intervento esterno.

Lei ha vissuto i bombardamenti Nato su Belgrado. Come li giudica?
Bombardare il mio Paese ha danneggiato le nostre prospettive di democrazia. Ha instillato nei serbi sentimenti anti-occidentali a lungo termine e lì per lì ha permesso a Miloševi? di rimanere al potere più a lungo. La popolazione si è unita intorno a lui e l’opposizione è stata congelata: non si protesta contro il governo del tuo Paese quando lo bombardano. La storia insegna che gli interventi militari, come quello in Libia, non sono mai stati alla base di un cambiamento democratico duraturo. La democrazia non si esporta.

Si parla di processare Putin per crimini di guerra. Che lezioni dovremmo imparare dal processo a Miloševic, che si è concluso dopo la sua morte?
È ora che gli Stati occidentali inviino i propri investigatori per raccogliere le prove necessarie nel modo più efficiente possibile e al più presto. Solo così si potranno stabilire le responsabilità della catena di comando, anche se è abbastanza evidente che siano già stati commessi molti crimini contro i civili nelle parti occupate dalla Russia, e l’intenzionale scelta di bombardarli. Se questo porterà i vertici russi, Putin incluso, ad affrontare un processo è ancora da vedere. Spero che qualsiasi tribunale venga istituito sia più efficace e meno divisivo del tribunale penale internazionale per l’ex  Jugoslavia: a mio avviso ha impiegato troppo tempo e non ha aiutato la riconciliazione nei Balcani.

Quale pensa sia l’eredità di Otpor! considerata la fresca rielezione di Aleksandar Vucic, filorusso ed ex alleato ultranazionalista di Miloševic?
L’obiettivo del nostro movimento era far sì che i serbi potessero eleggere democraticamente i propri leader. L’abbiamo raggiunto, avviando un percorso democratico di successo nei primi anni Duemila. Poi abbiamo dovuto far fronte a un evento che nessuno si sarebbe mai aspettato: il nostro primo ministro democraticamente eletto è stato assassinato. Da allora fatichiamo a mantenere la strada della democrazia e dell’Europa. È anche questione di partecipazione: molti si sono arresi all’idea che non cambi mai nulla e hanno smesso di andare a votare. Un errore.

La Republika Srpska, entità della Bosnia ed Erzegovina a maggioranza serba, sembra andare avanti nel suo progetto secessionista e molti temono che la guerra in Ucraina possa far riesplodere le tensioni nei Balcani.
Al contrario, è un’opportunità. Il conflitto sta rendendo il mondo meno grigio. Stiamo capendo che le nostre democrazie, per quanto caotiche e fallaci, sono la miglior forma di governo possibile, mentre l’autocrate è nudo e la sua brutalità evidente. Questo avrà un influsso positivo sui Balcani, spingendoli sempre più verso l’Europa. D’altra parte, l’Unione capirà che l’unico modo di non avere troppi focolai di crisi ai propri confini è espandersi. Fino ad ora ha nicchiato per via dei populisti come Matteo Salvini (leader della Lega nord, ndr) e Marine Le Pen (esponente dell’estrema destra francese, ndr). 

Lei ha affermato che prima della guerra albanesi, croati e musulmani avevano vissuto nei Balcani pacificamente. Cosa ha alimentato le divisioni?
La morte del leader della Jugoslavia, Tito, ha messo i leader locali nella posizione di poter intraprendere ciascuno la propria strada. C'è chi ha scelto la via delle riforme democratiche, come la Slovenia, e chi di alimentare le divisioni nazionalistiche per mantenere un potere autocratico: è quello che hanno fatto Milosevic in Serbia, Tudjman in Croazia, e Izetbegovic in Bosnia. Per loro ha funzionato bene, dato che sono rimasti a lungo al potere incontrastati, per la popolazione ha significato guerra, atrocità, oltre 700mila rifugiati, e ferite a lungo termine in una popolazione che per decenni aveva felicemente diviso terra, cultura e lingua. Se esiste l'inferno dantesco, spero che adesso tutti e tre si ritrovino lì, insieme, a cucinare nella stessa pentola.

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