13 luglio 2022
Si dice che la prima impressione sia quella giusta. Ho ascoltato per la prima volta il cardinale Matteo Zuppi il giorno della sua ordinazione episcopale alla basilica di San Giovanni, il 14 aprile del 2012. Sapevo chi fosse, del suo impegno con la comunità di Sant’Egidio, ma non lo conoscevo. Rimasi colpita dalle sue parole perché lasciavano vivere lo spirito del Concilio: il radicamento nell’amore in Dio e dei fratelli, l’apertura alla storia e alla città, la scelta dei poveri, la chiesa comunione e soprattutto la gratitudine di una vita guidata della grazia di Dio. “Davvero tutto, tutto è grazia”, furono queste le parole iniziali e finali del suo saluto. Ho confermato negli anni la mia prima impressione leggendo e ascoltando di tanto in tanto le sue parole. “La Chiesa nella città non è un fortino distante dalla strada, ma è una presenza prossima, oserei dire materna. Non ho paura di tutto ciò che è umano, non è questo il pericolo che ci minaccia, quanto piuttosto il credersi puri, perché non ci sporchiamo le mani”, disse salutando la città di Bologna per iniziare il suo servizio di pastorale nella Diocesi del cardinale Giacomo Lercaro e di Giuseppe Dossetti.
La Chiesa nella città non è un fortino distante dalla strada, ma è una presenza prossima, oserei dire materna. Non ho paura di tutto ciò che è umano, non è questo il pericolo che ci minaccia, quanto piuttosto il credersi puri, perché non ci sporchiamo le mani”Cardianale Matteo Zuppi - Presidente della Cei
Il cardinale Zuppi è stato nominato da papa Francesco presidente della Conferenza episcopale italiana. A chi gli ha chiesto in che condizioni abbia trovato la Chiesa, ha risposto che legge tanti segni che manifestano la volontà di accogliere le indicazioni del pontefice. Non so quanti siano in realtà questi segni, ma sembra evidente che Zuppi voglia farne il perno del suo programma pastorale.
La Chiesa ha iniziato, su indicazione del papa e sotto la guida paterna del cardinale Gualtiero Bassetti, il cammino sinodale – camminare insieme – sin dall’autunno del 2021. La chiesa che riscopre la sinodalità è una “chiesa in uscita, con le porte aperte”, che assume ogni frammento di umanità, che valorizza “gli scarti”, che abita le periferie, che è maestra di verità perché è madre di misericordia, che pone i poveri al centro, che sa che nessun tempo della storia è frutto della distrazione di Dio, che tutti gli uomini sono fratelli e tutte le donne sono sorelle, perché l’umanità tutta o è una sola famiglia o non è umana. È una Chiesa consapevole che la sua missione è distinta, ma mai separata da quella della comunità politica. Portare a termine questo cammino significa attuare la visione di chiesa che papa Francesco ci ha consegnato con le sue Encicliche e ci consegna ogni giorno con le sue parole e i suoi gesti.
Ciotti: La politica tace sui beni comuni
Nella missiva c’è l’invito ad amare la cosa pubblica, la politica e a valorizzare il lavoro dei servitori dello Stato, di sentirsi parte di una comunità, a non cedere all’individualismo, a riconoscere nelle istituzioni le sentinelle della società e nelle donne e negli uomini che lavorano nelle scuole, negli ospedali, nelle università e nei servizi pubblici i custodi dei beni comuni
Il nuovo presidente della Cei sembra determinato nel condurre la Chiesa italiana su questa strada. Ne ha dato prova in uno dei suoi primi atti: la lettera che in occasione della festa della Repubblica ha rivolto a tutti i servitori dello Stato. Nella missiva c’è l’invito ad amare la cosa pubblica, la politica e a valorizzare il lavoro dei servitori dello Stato, di sentirsi parte di una comunità, a non cedere all’individualismo, a riconoscere nelle istituzioni le sentinelle della società e nelle donne e negli uomini che lavorano nelle scuole, negli ospedali, nelle università e nei servizi pubblici i custodi dei beni comuni.
Una lezione di cittadinanza in un tempo in cui siamo inclini a vivere quasi con fastidio le regole della vita comune, se non addirittura a denigrare la pubblica amministrazione e i suoi burocrati, a disertare le occasioni di partecipazione politica, a rompere i vincoli di solidarietà. La pandemia che avrebbe dovuto spingerci a ridisegnare le nostre priorità, ci sta riconsegnando alla vecchia normalità che ci accaniamo a riconquistare. La situazione economica si sta aggravando a causa della crisi energetica e della guerra e solo istituzioni pubbliche forti e riconosciute potranno prendersi cura dei poveri che ovunque stanno aumentando.
Dobbiamo riconoscere che è ben radicato nella tradizione della Chiesa italiana il valore della laicità e l’attenzione alle povertà e alle fragilità. Anche se in molte circostanze la Chiesa è stata percepita più maestra che madre, più attenta a predicare il rispetto di alcuni valori “non negoziabili” che a prendersi cura delle angosce e delle inquietudini di una umanità smarrita di fronte alle sfide della modernità, più preoccupata di affermare la propria forza sociale che non la “stoltezza e la debolezza della Croce”, più incline a giudicare che a perdonare.
La guerra in Ucraina è una follia
Non possiamo inoltre non sottolineare la profonda sintonia tra papa Francesco e il nuovo presidente della Cei sul tema della pace, che si costruisce con gli strumenti di pace, non con le armi della guerra. Non usciremo dalla guerra con una visione manichea che dividendo i buoni dai cattivi non va alla ricerca delle cause che l’hanno provocata, non per giustificare l’aggressione, ma per trovare le vie di uscita. Alla guerra non ci si può rassegnare perché produce atrocità, distruzione, povertà. Non c’è solo guerra nel cuore dell’Europa, c’è la terza guerra mondiale a pezzi che si sta consumando in tante parti del mondo da molti anni. Non diremo mai davvero no alla guerra fin quando non guarderemo il volto dei bambini, delle donne, degli anziani, dei giovani soldati straziati dalla violenza. Nella guerra non ci sono mai vincitori, solo vinti dalle sue conseguenze.
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