Una soluzione sostenibile per le oloturie nel Mediterraneo

In Sardegna due imprenditori avevano avviato attività legate alle oloturie senza ricorrere alla pesca di frodo, ma il divieto del 2018 li ha fermati. Intanto l'Università di Roma Tor Vergata mappa i fondali e studia l'allevamento di cetrioli di mare

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

21 settembre 2022

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Conoscitori del mare e dei suoi abitanti, due uomini in Sardegna stavano sperimentando delle soluzioni controllate e trasparenti per dare il via alla produzione legale di oloturie, molto ricercate dai mercati asiatici. Tuttavia sono stati costretti a fermarsi dopo il divieto di pesca introdotto nel 2018 dal ministero per le Politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf), sulla scia delle indagini avviate a Taranto sulla pesca di frodo.

Biologo marino e allevatore di ostriche, Franco Rossi (nome di fantasia, perché l’intervistato preferisce restare anonimo) aveva un obiettivo: avviare nel golfo di Alghero, nel nord ovest dell’isola, il primo progetto di acquacoltura di oloturie in Italia. "I biologi marini hanno un’idea fissa, usare al meglio le risorse – spiega in un pomeriggio di metà luglio, durante una pausa dal lavoro –. Volevo raggiungere il recupero perfetto e realizzare un impianto multitrofico". Si tratta di un sistema in cui possono convivere più specie, in maniera tale che i rifiuti di una possano essere il nutrimento dell’altra. "Nell’impianto ci sarebbero state le ostriche in superficie e le oloturie sul fondale per migliorare il ciclo biologico", aggiunge. Il suo era un progetto sperimentale e non produttivo, nulla a che vedere con il commercio dei cetrioli di mare.

Tra Puglia e Grecia c'è un commercio illecito di oloturie

Nel 2017 chiede alla Regione Sardegna la concessione di un tratto di mare, ottenendo un’area davanti ad Alghero. I giornali locali pubblicano alcune notizie sul suo progetto innovativo, ma nel frattempo in Italia prende piede il business delle oloturie e tutto si complica. Rossi viene avvicinato da alcuni imprenditori cinesi intenzionati a comprare i prodotti e investire nella società: "Per loro le oloturie hanno un valore enorme, sono come una droga. Ho capito che da un gioco, la mia attività poteva rivelarsi pericolosa". Quando il 27 febbraio 2018 il Mipaaf ha posto il divieto basato sulle "evidenze scientifiche del Cnr – Istituto per l’ambiente marino costiero di Taranto", che mettevano in rilievo il ruolo delle oloturie nell’ecosistema marino e i rischi della pesca indiscriminata, Rossi ha accettato la decisione pensando si trattasse di uno stop temporaneo. "Da allora, però, il ministero ha reiterato il divieto di anno in anno, senza adottare una soluzione".

"Ho chiuso la società e messo in vendita il capannone e il materiale. Si poteva regolamentare l’attività, ma non interessava a nessuno. I pescatori e noi imprenditori siamo contrari a depredare il mare"Giuseppe Tanca - Imprenditore ittico sardo

Contro la decisione si è schierato anche Giuseppe Tanca, commerciante ittico che aveva deciso di commercializzare i cetrioli di mare raccolti dai pescatori di Porto Torres, nella costa nord. "Giravo il mondo e a Singapore avevo visto negozi con oloturie di tutte le qualità provenienti da ogni parte della terra", ricorda. Così tra il 2016 e il 2017, quando la grande distribuzione organizzata ha cominciato a pagare cifre più basse per le sue forniture di pesce e frutti di mare, Tanca ha aperto una società chiamata Oloturia, appunto. Ha stretto accordi con i pescatori per comprare i cetrioli di mare che tiravano su dalle acque con pesci e molluschi: "Ne siamo pieni – racconta – e che tu lo voglia o no finiscono nella rete. Ho chiesto ai pescatori di tenere quelle più lunghe di 25 centrimetri e di buttare in acqua le altre". Tanca pagava le oloturie tra i 15 e i 25 centesimi ciascuna e la vendita conveniva anche ai pescatori, i cui ricavi sono spesso ridotti dal costo del gasolio. Tanca ha investito denaro nel commercio di oloturie, ad esempio per convertire i capannoni dove eseguire pulitura ed essiccazione. "Perdono il 90 per cento del peso", precisa. Poi rivendeva il prodotto a grossisti cinesi con società in Olanda, professionisti che volevano tutto tracciato con fatture e bonifici, a un prezzo compreso tra i 50 e i 60 euro al chilo, che moltiplicava il suo valore una volta giunto in Asia. "Alcuni commercianti cinesi residenti in Italia chiedevano di comprare in nero, ma non potevo accettare".

Dopo il divieto imposto dal ministero l’imprenditore, assistito dagli avvocati Luigi Poddighe e Gian Comita Ragnedda, ha presentato un ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio per chiederne l’annullamento. "Abbiamo contestato l’eccesso di potere perché la ricerca era basata sulla costa di Taranto, già depauperata, e non sul territorio nazionale", spiega Poddighe. Tanca si è rivolto anche a politici e amministratori, ma senza mai ottenere risposte concrete. "Ho chiuso la società e messo in vendita il capannone e il materiale – spiega –. Si poteva regolamentare l’attività, ma non interessava a nessuno. I pescatori e noi imprenditori siamo contrari a depredare il mare, vogliamo  che la pesca sia duratura".

Tanca è stato l’unico imprenditore della zona a occuparsi di oloturie, ma ci si chiede cosa sarebbe avvenuto se altri fossero entrati nel commercio, innescando la concorrenza e quindi una pesca eccessiva. Lui, dal canto suo, auspica una soluzione come quella adottata in Grecia, dove è possibile pescare le oloturie per pochi mesi l’anno o entro certe quantità. "Meglio un sistema di quote – sostiene invece Rossi – è un bel deterrente, anche se una parte di traffico illecito rimane. L’acquacoltura è una salvaguardia".

Chi nel frattempo sta portando avanti ricerche sull’acquacoltura è l’Università di Roma Tor Vergata. "Stiamo valutando l’utilizzo dei cetrioli di mare negli allevamenti di pesce – spiega il ricercatore Arnold Rakaj – e lavorando sulla mappatura e la valutazione degli stock delle oloturie. Abbiamo iniziato in Puglia e Calabria quindi, per conto del ministero, stiamo estendendo a tutte le marinerie italiane. Vogliamo acquisire le basi scientifiche attraverso cui definire un modello di gestione sostenibile della pesca, ad esempio definendo le quote. Si tratta della prima e più grande mappatura europea su questa risorsa"                                                            a.g.


Questo articolo è stato realizzato col supporto di Internews e dell’Earth Journalism Network nell'ambito del Mediterranean Media Initiative

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