15 dicembre 2022
Qualche mese fa, spinta dalla noia di un monotono pomeriggio estivo, ho riguardato tutto ciò che i miei genitori e parenti avevano postato sui loro profili Facebook durante gli anni. Così mi sono imbattuta in interminabili raccolte di foto su diversi momenti della loro esistenza: vecchi compleanni, matrimoni, vacanze in famiglia, viaggi in giro per il mondo. Si trattava di veri e propri album di ricordi. Mi hanno emozionato moltissimo. In quel momento, mentre ero presa da una forte nostalgia per la mia infanzia, mi sono accorta di non avere mai provato quel tipo di sensazioni utilizzando i social. E che neppure la nuova applicazione “BeReal” era riuscita a togliere i filtri al nostro modo di starci.
La malinconia mista a felicità di quel giorno si contrappone in modo netto alla sensazione di disagio, al senso di insicurezza e talvolta anche d’invidia che normalmente provo quando utilizzo i social. La mia generazione li usa, in particolare Instagram, sempre in modo ritoccato, modificando le foto e applicando dei filtri. In questo modo gli scatti non sono più ricordi, ma un modo per dimostrare che siamo migliori degli altri: i post hanno l’unico scopo di mettere in evidenza la bellezza fisica; le immagini di gruppo, dei viaggi che facciamo e dei posti che frequentiamo con i nostri amici, non hanno lo scopo di immortalare i momenti felici, ma di ostentare la nostra attiva vita sociale.
Un'ora di informazione da ventenne
Si tratta di dimostrare di essere più attraenti, di avere più amici, di uscire di più, di fare più esperienze e soprattutto di essere più felici rispetto a chi ci guarda. Postare significa essere. E se non pubblichiamo regolarmente col nostro gruppo di amici, è come se quest’ultimo non esistesse affatto.
Quando qualche mese fa tutti i miei amici, e di conseguenza anche io, abbiamo scaricato e iniziato a usare un social completamente nuovo, chiamato “BeReal”, per un lasso di tempo brevissimo, ho pensato che forse avremmo trovato qualche speranza di autenticità anche nel mondo dei social.
Imparare a fallire per diventare grandi
L’app “BeReal” manda una notifica a tutti i suoi utenti ogni giorno a orari diversi. Quando arriva, si hanno due minuti di tempo per scattare una foto che verrà poi pubblicata sul proprio profilo. Partendo da questi presupposti, inizialmente ho pensato che si trattasse di un mezzo che avrebbe aiutato molti ragazzi a superare le proprie insicurezze, rendendo chiaro che nessuno ha una vita perfetta. La gente sta anche a casa da sola e non è fisicamente priva di difetti.
Mi sono ricreduta quasi subito. Io stessa non riuscivo a superare con BeReal l’insicurezza che avevo sviluppato negli anni. Quando postavo di me che studiavo da sola in camera e vedevo tutti gli altri caricare solo immagini di aperitivi, di serate in discoteca o a cena con gli amici, mi sentivo estremamente a disagio. Sentivo lo stesso malessere che provo quando la sera non esco e vedo tra le storie di Instagram decine e decine di foto di persone che, al contrario di me, sono fuori a divertirsi.
Così mi sono adeguata. Se sapevo di uscire la sera, aspettavo quel momento della giornata per postare. Non importava se l’orario della notifica risaliva alla mattina, perché volevo far vedere a tutti che io quella sera ero uscita. Quando arrivava la notifica ed ero in pigiama, mi cambiavo e magari mi truccavo anche, solo per venire bene. L’ossessione di apparire migliori degli altri non era passata, aveva solo cambiato contesto: ora la gara consisteva nell’apparire i migliori anche nella propria spontaneità.
Questa è la natura dei social tra i miei coetanei: sono malattia e cura apparente. Rappresentano il contesto dentro cui si sviluppano enormi insicurezze per gli standard inimitabili che ci vengono imposti e, allo stesso tempo, lo spazio in cui trovare un’apparente soluzione cercando e trovando approvazione. Sono una scorciatoia che ci illude di poter cambiare noi stessi, invece di affrontare la fatica di accettarci per come siamo.
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