23 dicembre 2022
Non era un poliziotto, un magistrato o un politico, era un cittadino comune. Non aveva votato la sua vita alla causa, ma era spinto da un insaziabile bisogno di giustizia. Era Demetrio Quattrone, un ispettore del lavoro ucciso dalla ‘ndrangheta il 28 settembre 1991 nella sua città, Reggio Calabria, insieme all’amico Nicola Soverino.
Una vittima innocente per la quale non esiste una verità giudiziaria. Ingegnere, Quattrone aveva studiato al Politecnico di Torino. Era stato uno studente fuorisede, come molte e molti di noi del presidio Tina Motoc di Libera, che ha sede nel capoluogo piemontese. Abbiamo ascoltato la sua storia attraverso la testimonianza dei figli Rosa e Nino, in una sera di fine settembre al Comala, uno spazio giovanile non distante dal Poli. Quei racconti hanno suscitato in noi alcune riflessioni.
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Prima riflessione: incontrare i parenti delle vittime innocenti di mafia è un’esperienza preziosa, capace di aprire un varco che nessuna pagina di giornale, documentario, film o libro può aprire allo stesso modo. È stato un momento formativo, ma è andato oltre le aspettative: la tenerezza e l'ammirazione con cui Rosa e Nino parlavano del padre hanno fatto sì che questo incontro restituisse il disegno di una persona profondamente amata. Ci hanno ricordato che dietro la morte di una vittima di mafia c'è tutta una vita con un valore inestimabile, che continua a esistere nel tempo, cambiando forma e abitando nella memoria delle persone che restano.
La seconda riflessione è sulla visione della mafia e dell’antimafia sociale, che ancora prevale nell’opinione pubblica. Anche senza essere un uomo delle forze dell’ordine o della magistratura, Quattrone aveva fatto dell’etica e della giustizia i cardini del suo lavoro e si opponeva al metodo mafioso. Per dirla con le parole del giudice Giovanni Falcone, la mafia "non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società". E così, la storia di Quattrone insegna che non basta non essere mafiosi, ma bisogna agire attivamente. Non solo bisogna astenersi dal commettere ingiustizia, ma soprattutto bisogna farsi testimoni attivi delle irregolarità così diffuse nei nostri territori. Bisogna essere cittadini nel senso più largo del termine. Citando ancora Falcone: "Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro, né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia".
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"Solo facendo bene il nostro lavoro possiamo combattere la criminalità e scuotere le nostre terre dal torpore e dalla rassegnazione"Luigi - studente a Torino
La storia di Quattrone ci insegna altro. Come molti e molte di noi, da ragazzo aveva lasciato la sua città per studiare a Torino, dove molti meridionali arrivavano per lavorare come operai nelle fabbriche della Fiat. I tempi sono cambiati, ma anche noi in un certo modo ripercorriamo quel percorso. "Due anni fa ho scelto di trasferirmi da Bari a Torino per studiare ingegneria nella stessa università che ha frequentato Demetrio Quattrone – racconta Gabriele –. Mi attraeva la possibilità di sperimentare un modo diverso di vivere e assaggiare l’indipendenza. I chilometri che mi separano dalla Puglia un po’ mi spaventavano, ma sono riuscito a costruirmi una rete di amici che anche qui mi fanno sentire a casa".
La storia di Quattrone è stata d’ispirazione anche per Luigi. "Credo che noi giovani del Sud, costretti a emigrare per colpa di un sistema corrotto e mafioso, dov’è difficile lo sviluppo delle nostre carriere e di una formazione libera, abbiamo una maggiore responsabilità nel formarci come cittadini e professionisti, capaci di portare nei territori d’origine conoscenze e una forte deontologia professionale. Abbiamo il dovere civico e morale di comprendere e riconoscere la presenza delle mafie e della corruzione. Solo facendo bene il nostro lavoro, senza sotterfugi e ammiccamenti, possiamo combattere la criminalità e scuotere le nostre terre dal torpore e dalla rassegnazione che decenni di violenze e soprusi criminali hanno portato".
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Come Quattrone, anche tra di noi ci sarà chi tornerà nella sua città o nel suo paese. "Un giorno vorrei diventare medico – dice Lucia –. Ci sono posti in cui poter contare su una struttura sanitaria non è così scontato, zone dove per un'interruzione di gravidanza sicura è necessario percorrere chilometri. Mancano i medici che scelgono di non prendersi in carico il paziente, credo che in luoghi come questi la presenza di un dottore in più possa essere utile. Non escludo di tornare a lavorare nel mio paese". Giorgia è nata a Casale Monferrato, città piemontese purtroppo nota per la fabbrica Eternit e le morti da amianto. "Sono cresciuta sentendo le testimonianze di famiglie distrutte e vedendo persone a me care ammalarsi". Ragione per cui vorrebbe laurearsi con una tesi sui crimini legati all’ambiente e sul diritto ambientale. "Non so in che modo potrò essere utile a Casale, ma voglio che nella mia città sia fatta giustizia. Quello che è accaduto qui non deve ripetersi altrove".
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