24 gennaio 2023
Lo scorso 31 dicembre 700 detenuti che negli ultimi due anni hanno vissuto fuori dal carcere sono tornati a dormire in cella. Il governo guidato da Giorgia Meloni ha, infatti, deciso di non prorogare la misura contenuta nel decreto Cura Italia, che con lo scoppio della pandemia da covid-19 e l’esigenza di aumentare il distanziamento sociale all’interno degli istituti penitenziari, aveva previsto per i detenuti in regime di semilibertà delle licenze premio straordinarie, derogando al limite dei 45 giorni l’anno e garantendo loro la possibilità di non tornare in carcere a dormire fino al 30 giugno 2020. In tal modo si è evitata una possibile commistione tra dentro e fuori, facendo rientrare in carcere persone che uscendo, prendendo i mezzi pubblici, frequentando luoghi anche affollati, potevano contrarre il virus e portarlo all’interno delle carceri.
Tutte le emergenze del carcere
Per questi detenuti in semilibertà la fine dell’anno ha dunque segnato il ritorno in cella. Da qui la domanda: che senso ha la pena? Che senso ha tornare a rinchiudere, anche se solo di notte, persone che negli ultimi due anni e mezzo hanno vissuto in misura alternativa? Il che non significa incertezza della pena, ma certezza di una pena eseguita diversamente rispetto a quella carceraria. Persone che si sono immerse completamente nella società, ricostruendo reti sociali, amicali, familiari che spesso il carcere, creando una separazione netta e radicale con il mondo esterno, invece spezza. Ha senso, dunque, sradicarli da una integrazione sociale già avvenuta e effettiva? Se la pena deve tendere alla reintegrazione del condannato, la risposta che verrebbe da dare è no, non ha un gran senso.
Le misure alternative sono state pensate proprio in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna
Non ha un gran senso a fronte del comportamento di queste persone che, negli ultimi due anni e mezzo, hanno saputo ripagare la fiducia che le istituzioni hanno riposto in loro, rispettando le prescrizioni che gli erano state imposte e non tornando a commettere altri reati. Del resto lo sappiamo che le misure alternative sono efficaci e che solo una piccola percentuale viene revocata per la commissione di un nuovo reato.
Una persona rinchiusa per anni e poi, arrivata all’ultimo giorno di pena, abbandonata di fronte al cancello del carcere è ben più probabile che tornerà a commettere un reato rispetto a chi ha avuto l’opportunità di riavvicinarsi con gradualità al mondo del lavoro e ad altri contesti sociali. Le misure alternative sono state pensate proprio in un’ottica di protezione sociale, di lotta alla recidiva e di conseguente aumento della sicurezza esterna.
Antigone, la pazzia aspetta in carcere
Non ha un gran senso neanche se si guarda alla situazione del sistema penitenziario italiano, dove nel 2022 sono avvenuti 84 suicidi, il numero più alto di sempre. Senza dimenticare i tassi di sovraffollamento preoccupanti: in un anno, dal 31 dicembre 2021 al 31 dicembre 2022 i detenuti sono 2mila in più, con un tasso di affollamento che sfiora il 110 per cento. Un dato ufficiale che spesso non tiene conto dei posti conteggiati ma non realmente disponibili per lavori o ristrutturazioni. Quei 700 posti letto potevano servire a mitigare situazioni che in molte carceri sono al limite, come provato nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che con la sentenza Torreggiani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu), secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
In parlamento è in discussione la conversione in legge del decreto n. 198 della legge 29 dicembre 2022 “Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”, che dovrà essere approvata entro il prossimo 27 febbraio. All’interno della norma potrebbe trovare posto la misura per garantire ai 700 detenuti semiliberi di tornare al loro percorso di reintegrazione sociale, cancellando questo brutto passo indietro.
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