31 marzo 2022
"Il 41 bis va salvato". Francesco Basentini è preoccupato per il futuro del regime speciale, anche per via dell’attaccamento morboso che all’istituto – di "fondamentale importanza" – fa più male che bene. La cronaca l’ha voluto alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in uno dei momenti più difficili della sua storia recente: il covid, le rivolte, e poi le polemiche che l’hanno portato a rassegnare le dimissioni. Era il 21 marzo del 2020, quando una nota firmata dall’allora direttore generale detenuti e trattamento, Giulio Romano, invitava le direzioni di tutte le carceri d’Italia a segnalare i detenuti che si trovavano in particolari condizioni di salute. Qualche settimana dopo L’Espresso lanciava l’allarme sul possibile ritorno a casa di condannati al 41 bis. Un polverone che ha travolto il Dap e che – ribatte oggi il magistrato – era privo di fondamento: "Il Dipartimento non ha l’autorità di scarcerare nessuno". Basentini racconta di aver visitato 60 istituti durante il suo mandato, trovandosi di fronte una realtà diversa da quella prevista dall’ordinamento penitenziario. "Nei fatti del tutto, o quasi, disatteso", ammette.
Ritorniamo alle rivolte che hanno coinvolto oltre 20 istituti. Sono i primi giorni di marzo 2020, l’Italia è alle prese con la prima ondata pandemica, i colloqui nelle carceri vengono sospesi e tra detenuti e familiari aumenta la paura. Lei che idea si è fatto?
Il covid con le rivolte c’entra poco. Da giorni monitoravamo canali social e forum in cui ci si scambia informazioni su quello che succede nei penitenziari. Mi sembra oggettivo dire che tutto sia partito grazie a un input e la pandemia sia stata usata come pretesto per determinate rivendicazioni.
Il Dap è poi finito sotto accusa per la possibile scarcerazione di condannati al 41 bis. Che risponde?
Scarcerazioni è un termine improprio: si trattava di misure alternative alla detenzione. E il Dipartimento non ha l’autorità di stabilire né le prime né le seconde. La nostra nota dava solo mandato ai direttori di tutti gli istituti di comunicare al più presto ai tribunali di sorveglianza quei detenuti affetti da particolari patologie, sulla cui situazione era urgente una valutazione da parte dei magistrati. Il Dap si è solo limitato a seguire la legge.
Si è parlato di una lista di oltre 300 boss.
Degli oltre 750 detenuti al 41 bis, solo per cinque è stata disposta una misura alternativa. Due di questi provvedimenti sono stati firmati dai magistrati di sorveglianza, gli altri tre da giudici di merito che non erano in alcun modo influenzabili dalla nota del Dap. Non ho poi capito perché tanto accanimento mediatico nei confronti di Pasquale Zagaria (fratello di Michele, capo del clan dei Casalesi, ndr), una persona malata di cancro che doveva essere sottoposta a un controllo e sarebbe uscita dal penitenziario qualche mese dopo. Ci sono problemi più seri che minano la tenuta del 41 bis.
Covid e boss scarcerati, cosa è successo veramente
Cioè?
Descrivo la situazione al 41 bis nel carcere de L’Aquila, dove c’è il maggior numero di reclusi sottoposti al regime speciale. Le celle detentive sono una di fronte all’altra con il risultato che i detenuti possono chiacchierare tra loro. Un altro rischio ha a che fare con i legali: pochi avvocati difendono molti boss. Dall’altra parte, non si può chiudere gli occhi su un dibattito giuridico che fa soprattutto capo alla Corte di giustizia dell’Unione europea e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sono convinto dell’utilità dell’istituto, che va salvaguardato, ma non bisogna abusarne. Invece nei suoi confronti c’è spesso un attaccamento morboso, quindi sbagliato. Oggi i condannati al 41 bis ci rimangono a vita e non tutti hanno un’alta caratura criminale. Bisognerebbe essere più elastici e permettere a coloro che dimostrano di essersi ravveduti di non essere più sottoposti al regime speciale. È un meccanismo che da magistrato ho alimentato anch’io, ma da direttore del Dap mi sono reso conto che determina un paradosso: si creano liste d’attesa e la mancanza di posti impedisce di destinare al 41 bis delle persone per cui l’esigenza è reale.
Lei ha anche avviato un processo di riforma delle sezioni di alta sicurezza, destinate a chi è condannato o accusato di associazione mafiosa. Come mai?
Quando sono arrivato in Dipartimento, ho scoperto che 3800 reclusi in alta sicurezza erano collocati nelle carceri delle loro rispettive città. Credo sia un errore, soprattutto in alcuni contesti. Forse non mi sbagliavo se a distanza di qualche anno la direttrice dell’istituto di Reggio Calabria è stata arrestata con l’accusa di concedere favori ai detenuti e alcuni agenti del penitenziario di Cosenza con quella di concorso esterno in associazione mafiosa.
Carceri, lo Stato deve capire le dinamiche relazionali, anche coi reclusi mafiosi
Tra i detenuti di alta sicurezza di cui dispose il trasferimento ci sono quelli del penitenziario di Foggia, dove c’è stata un’evasione di massa.
Il problema di Foggia è più complesso e in parte prescinde dalla situazione intramuraria. L’errore è che si continua a trattare quel territorio senza tenere conto della pericolosità della mafia locale. Lo stesso succede in carcere, dove molti detenuti comuni andrebbero riqualificati come detenuti di alta sicurezza e trasferiti altrove.
Eppure, stando ad alcune fonti de lavialibera, la presenza di quei detenuti di alta sicurezza a Foggia garantiva un certo ordine.
Una di quelle logiche carcerarie che non possiamo istituzionalmente accettare. E poi bisogna sempre domandarsi a quale prezzo.
Carcere di Foggia, evasi per assenza di boss. Leggi l'inchiesta
Il quadro che fa delle carceri sembra fallimentare sotto il profilo sia della sicurezza sia della rieducazione del condannato.
Non è una realtà fallimentare, ma complessa, che andrebbe ripensata dalle fondamenta. Serve investire, ma soprattutto un’idea di carcere. Temo che negli anni sia mancata soprattutto una visione. Dispiace
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