Aggiornato il giorno 13 ottobre 2021
In terra di mafia un carcere non si governa senza la collaborazione dei boss detenuti. I cancelli possono fermare la libertà di movimento, gli affetti, a volte gli affari, ma non il potere criminale. Difficile spiegare altrimenti l’evasione di 72 persone dalla casa circondariale di Foggia il 9 marzo 2020. All’inizio della quarantena, mentre le proteste devastano decine di penitenziari in tutta Italia causando la morte di 13 reclusi, nella Capitanata i carcerati abbattono i cancelli e si riversano in strada, fino a sparire. I testimoni raccontano: lo hanno fatto senza incontrare resistenza. Un caso unico nel Paese, che con covid c’entra poco, e una ferita aperta per chi ha la responsabilità dell’istituto.
Carceri, covid e boss: "Errore la mancata trasparenza"
Il tasso di sovraffollamento nell’istituto è del 145%. La mattina dell’evasione c’erano 48 agenti a far fronte a 500 detenuti
La mattina della grande fuga il cappellano fra Eduardo Giglia ricorda che una "marea di detenuti" ha rotto il portone di ferro e invaso il cortile. Pochi secondi, 26 in tutto, per abbattere il primo cancello, "il secondo non sono riusciti e hanno usato il passaggio pedonale a lato" della guardiola. Quando hanno svoltato in via delle Casermette e poi nel villaggio degli artigiani, i commercianti sono corsi ad abbassare le saracinesche e i telefoni hanno iniziato a squillare. "Non dico che i carcerati abbiano trovato i cancelli aperti, ma quasi", racconta il gestore di una tavola calda a pochi metri dall’ingresso del penitenziario.
Secondo un’indagine in corso, dietro le sbarre si controllava il mercato delle estorsioni con la complicità del personale carcerario
I video registrati dagli abitanti della palazzina di fronte l’istituto riprendono due volanti della polizia arrivare a sirene spiegate quando ormai è troppo tardi e decine di evasi corrono via, rubando le auto. Tra i fuggiaschi c’è persino chi riesce a fermarsi in un negozio per prendere un orsacchiotto da portare a casa. Un’azione che per qualche giorno ribalta i rapporti di forza. Dal 9 al 12 marzo la casa circondariale di Foggia rimane nelle mani dei detenuti. "C’era un’atmosfera da scampagnata – continua Giglia –, tra i detenuti che avevano partecipato alla protesta diversi si sono fermati all’ingresso: non tutti erano d’accordo con la fuga, alcuni sono stati costretti. Ma dentro regnava l’anarchia". Nelle celle sono rimaste solo un centinaio di persone, tra cui gli autori di reati sessuali e chi godeva della semilibertà.
Secondo una fonte de lavialibera, le ragioni dell’evasione vanno cercate anzitutto nella chiusura della sezione di alta sicurezza della casa circondariale, dove sono destinati gli accusati di mafia, avvenuta a fine febbraio 2020. Sarebbe stato il vuoto di potere creato dal trasferimento di alcuni boss in altri istituti di pena a lasciare campo libero a nuove leve, desiderose di affermarsi e meno disposte a negoziare con le autorità. La voglia di tornare a casa e il desiderio di emulazione (perché il carcere di Foggia non fosse da meno rispetto agli altri istituti in rivolta) avrebbero fatto il resto.
A gestire i disordini, i capi delle sezioni comuni con profili criminali di spessore e alcuni poi accusati per mafia, come l’omicida Christoforo Aghilar: ultimo evaso a essere catturato cinque mesi dopo la fuga. In particolare, avrebbero avuto un ruolo decisivo due rampolli: Ivan Caldarola del clan Strisciuglio di Bari e Antonio Bruno del gruppo Moretti-Pellegrino-Lanza. L’ultimo ha rivendicato la sua leadership nella rivolta, tenendo testa anche al provveditore dell’amministrazione penitenziaria intervenuto per tentare una mediazione durante gli scontri. Dopo le proteste, Bruno è stato spostato a Santa Maria Capua Vetere e poi ad Agrigento. Il suo cognome lo lega a Gianfranco Bruno, tra i boss dell’alta sicurezza trasferiti che – secondo i racconti – fino a quel momento aveva garantito un certo ordine all’interno del carcere. Lo ribadisce anche la direttrice della casa circondariale Giulia Magliulo: "Il detenuto in alta sicurezza vuole stare tranquillo. Non ti crea problemi". I criminali più anziani, con le condanne più alte, cercano di sfruttare al massimo i benefici della buona condotta per restare nel proprio territorio e proseguire con gli affari, anche per rispetto delle proprie famiglie, altrimenti costrette a percorrere chilometri per i colloqui. Caldarola e Bruno, con altri 80 detenuti, hanno recentemente ricevuto un avviso di garanzia per i reati commessi durante la rivolta.
Perché l'alta sicurezza è stata chiusa? La circolare che ha disposto la chiusura dell’alta sicurezza, firmata dall’ex direttore generale detenuti e trattamento Giulio Romano, parla di grave sovraffollamento degli istituti penitenziari pugliesi, della necessità di maggiori posti di media sicurezza e di non meglio precisate esigenze delle autorità giudiziarie. Ciò che è certo è che tra il 2019 e il 2020 sono stati sequestrati dentro l’istituto diversi cellulari. Un’indagine ancora in corso su uno dei primi dispositivi beccati documenta i contatti di un detenuto con un operatore penitenziario e diversi imprenditori. L’ipotesi è che il telefono fosse usato per controllare il mercato delle estorsioni da dietro le sbarre, con la complicità del personale dell’istituto. A dicembre 2019 una perquisizione straordinaria del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria e della Direzione investigativa antimafia (Dia) ha portato al ritrovamento di quattro cellulari, tre schede sim, 20 grammi di hashish e un coltello a serramanico. Quest’ultimo proprio nella sezione di alta sicurezza, chiusa d’improvviso due mesi dopo. La direttrice del carcere dice che la decisione è stata presa dall’ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini, deciso a "togliere i boss dal territorio". Sentito da lavialibera per una spiegazione, Basentini ha risposto che "l’argomento non è trattabile".
“Secondini e reclusi provengono dallo stesso quartiere, le dinamiche di potere si replicano”
Le indagini, le testimonianze e l’evasione documentano la permeabilità del carcere foggiano. Diverse le ragioni. Una la spiega Claudio Sottile, che insegna all’interno dell'istituto: "Qui capita che secondini e detenuti provengano dallo stesso quartiere e, quando si conoscono, le dinamiche di potere si replicano". La direttrice Magliulo racconta di un "contesto difficile", segnato da continue proteste sindacali, aggiungendo che al suo arrivo, a fine 2019, la cosa più difficile è stata "lavorare sulle relazioni", sulla "diffidenza di un personale sofferente".
Molte difficoltà sono comuni alla gran parte dei penitenziari italiani. Il resoconto di Maria Pia Scarciglia, referente dell’associazione Antigone in Puglia, dà l’idea di un carcere vecchio, poco orientato alla rieducazione, dove i detenuti vanno solo tenuti a bada e la gestione è affidata agli agenti: non esistono lavori di pubblica utilità, non esiste l’università, pochissima l’attività formativa, con due educatori al posto dei sei previsti. E poi c’è troppa gente: il tasso di sovraffollamento è del 145 per cento, con una media di 550 presenze giornaliere. Il comparto di polizia conta circa 260 unità, da cui bisogna sottrarre chi, per raggiunti limiti di età, malattie o permessi, è rimasto in carica pur non essendo di fatto operativo. Così il numero degli agenti in servizio scende a 190 individui. I più hanno oltre 40 anni, sono stanchi, demotivati e ogni mese sono sempre meno: chi va in pensione non viene rimpiazzato "perché la pianta organica del carcere di Foggia – denuncia Magliulo – è sbagliata: sono previsti meno agenti di quanti ne richiederebbe la struttura", tanto che lei ha preferito "barattare" la figura del vicedirettore, che manca, con 10 nuovi poliziotti: ne sono arrivati nove. Le proteste e gli scioperi del personale sono ricorrenti, gli ultimi risalgono a pochi giorni prima della rivolta, quando era in corso una contrattazione tra la nuova direzione e il personale. La mattina dell’evasione c’erano 48 agenti a far fronte a 500 detenuti.
A luglio 2021 il Dap ha istituito una Commissione ispettiva sulle rivolte. La presiede Sergio Lari, ex procuratore generale della corte d’Appello di Caltanissetta. Quale che sia l’esito dell’indagine, le cui conclusioni dovrebbero arrivare a fine anno, l’istituto penitenziario di Foggia "è ancora provato dalla rivolta – riporta la componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti, Daniela de Robert, dopo l’ispezione di luglio –, inoltre la criminalità presente sul territorio pesa molto anche in carcere".
Su un punto sono tutti d’accordo: a dispetto dei cancelli, il potere mafioso foggiano si riproduce tale e quale dentro le sbarre. "Una mafia matura sa bene che la sua proiezione comprende due ambiti, quello extramurario (la strada) e quello intramurario (il carcere), è proprio il collegamento strada-carcere che chiude il cerchio, è il luogo dove si misura e consolida la forza di un gruppo mafioso", spiega il magistrato Giuseppe Gatti. Dentro il carcere si decidono strategie, si stringono rapporti, si fanno apparentamenti, si decide la morte di alcune batterie, si affiliano nuove reclute. Di per sé nulla di nuovo, se non fosse che talvolta le asimmetrie di potere invischiano anche chi è chiamato a vigilare. Il carcere di Foggia segue le stesse logiche del resto della città, debolezza istituzionale e abbandono alla legge del più forte. Ed è per questa ragione che – dicono – "ciò che è successo il 9 marzo potrebbe ripetersi anche adesso".
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