Crimine dei potenti, una questione di prospettiva

Ci hanno insegnato che il crimine nasce dalla povertà e dall'esclusione. Invece esiste quello dei ricchi, frutto di privilegi e ben più dannoso della delinquenza convenzionale

Vincenzo Ruggiero

Vincenzo RuggieroProfessore di Sociologia alla Middlesex University di Londra

28 febbraio 2023

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Il pensiero religioso e quello politico hanno spesso giustificato l’esistenza dei potenti per il presunto ruolo protettivo che esercitano nei confronti dei senza potere. Questa giustificazione si accompagna all’idea che l’élite è in grado di riprodursi principalmente tramite atti di generosità, rinuncia e altruismo. Con l’idea marginalista, il pensiero economico aggiunge che chi possiede molte risorse perde l’appetito di accumularle e che queste risorse, al contrario, ricadranno verso il basso, distribuendosi tra chi ne è privo.

Ecco perché, forse, quando ci troviamo di fronte alla criminalità dei potenti siamo disorientati: le dottrine ufficiali ci hanno sempre insegnato che il crimine è prodotto da povertà, esclusione, deficienze materiali e patologie culturali. Il crimine dei potenti, al contrario, è frutto di eccedenze e privilegi e il suo fatturato supera di migliaia di volte il danno provocato dalla criminalità convenzionale.

Potere e dominio

Il potere, ovviamente, consiste nel costringere qualcuno, tramite la forza o il consenso, a fare qualcosa. I potenti che commettono reati, perciò, si avvalgono di coercizione e, simultaneamente, di narrazioni e codici comunicativi che rendono le loro condotte accettabili e riproducibili. Max Weber, a questo proposito, distingueva tra potere e dominio, il primo basato sull’uso o sulla minaccia dell’uso della forza, il secondo sul consenso suscitato. Analogamente, Antonio Gramsci parlava di dominazione, che mira a soggiogare o anche a liquidare i gruppi rivali, e di leadership, vale a dire la capacità di creare consenso, diffondere valori che danno forma a un sistema morale e normativo egemone. Così i potenti, che possono ricorrere alla cospirazione e alla coercizione, alla segretezza e alla falsificazione, ma allo stesso tempo hanno bisogno di suscitare ammirazione e imitazione. In questo senso, devono da un lato nascondersi e dall’altro esibirsi, facendo delle loro malefatte altrettante azioni promozionali: gli spettatori vanno resi partecipi dell’azione, vanno coinvolti, devono identificarsi.

La criminalità dei privilegiati possiede una caratteristica inconsueta, in quanto è costituita da violazioni di quelle norme sociali e legali che garantiscono a chi le commette la propria condizione di privilegio. I potenti violano i loro stessi principi e la propria filosofia di vita. Chi esprime fede nei confronti della libertà di mercato spesso la nega ai concorrenti attraverso la formazione di monopoli o il sostegno di complici che agiscono nella sfera politica. Chi invade un paese con il proposito di renderlo democratico, in verità, nega i principi democratici in nome dei quali giustifica la propria iniziativa militare.

Un esempio sbagliato

La criminalità dei potenti possiede, inoltre, un impeto sperimentale nel senso che, una volta perpetrata, può essere stigmatizzata o tollerata, dando luogo a un processo di decriminalizzazione che la rende infine routine. I crimini commessi diventeranno condotte legittime, creando precedenti e indicando procedure a chi vorrà imitarle. In questi casi, la criminalità dei potenti è criminogena. A conferma, si osservi la traiettoria dell’evasione fiscale in Italia, dove i grandi evasori fanno da modello a chi evade cifre miserabili.

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Vale poi la pena esaminare la variabile incertezza, un aspetto cruciale nella vita dei potenti, che sono spinti al crimine, tra l’altro, dalle condizioni economiche e politiche contingenti, dalla valutazione delle risorse che detengono e dalla previsione di quanto avranno a disposizione in futuro. La criminalità dei potenti, perciò, può anche essere ritenuta un effetto della paura del futuro. Chi possiede risorse esorbitanti viene spinto ad accumularne sempre più, temendo che eventi futuri potranno minacciarne il godimento. Come osservava Hobbes, gli umani sono gli unici animali che avvertono oggi la fame che avranno domani.

La natura non c’entra nulla

Un episodio recentissimo va ben oltre, rivelando come i potenti siano più radicali di chi li critica. Un ministro del corrente governo italiano, commentando sulla corruzione di parlamentari europei e lobbisti a loro collegati, ha innanzitutto espresso una preoccupazione nazionalista, affermando che la corruzione non è patrimonio genetico esclusivo delle élite italiane. Preoccupazione grottesca, se si pensa che cinque delle persone denunciate e inquisite sono italiane e una (di nazionalità greca) è partner di uno dei cinque.

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Ma l’affermazione successiva chiarisce il senso di questo malriposto nazionalismo: la corruzione, suggerisce il ministro, fa parte della natura umana, e sebbene sia dovere di tutti combatterla, sarà impossibile debellarla. Siamo qui in un territorio che oltrepassa il "così fan tutti", la giustificazione mozartiana presentata da Bettino Craxi in parlamento agli albori di Mani pulite.

Mani pulite trent'anni dopo

Siamo piuttosto nella sfera metafisica, nel terreno della naturalizzazione, vale a dire nel processo logico che porta ogni condotta nel novero delle scelte umane, squisitamente umane. Aspettarsi dagli umani dei comportamenti etici è come invocare la solidarietà di un albero. Chissà se anche lo stupro potrà essere prima o dopo naturalizzato. La società civile che combatte la criminalità dei potenti propone, al contrario, un percorso di de-naturalizzazione delle condotte, come del resto fa la parte più nobile delle scienze sociali: i sistemi nei quali viviamo non sono gli unici possibili e la natura del sociale può presentare aspetti spregevoli come scorci ammirevoli. Scegliere la propria prospettiva è ancora possibile.

Da lavialibera n° 19, Il potere è cieco, noi no

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