Strage di San Marco in Lamis, per la prima (e unica) condanna fondamentali i pentiti

La corte di Appello di Bari ha confermato la condanna all'ergastolo per Giovanni Caterino, unico imputato per la strage di San Marco in Lamis, in cui morirono il boss Mario Luciano Romito e due agricoltori innocenti: Luigi e Aurelio Luciani. Nella scelta hanno pesato le dichiarazioni dei nuovi collaboratori di giustizia

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

23 febbraio 2023

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Sono state le dichiarazioni dei pentiti a convincere la corte d'Appello di Bari a confermare la condanna all'ergastolo per Giovanni Caterino, unico imputato per la strage di San Marco in Lamis (in provincia di Foggia), in cui il 9 agosto del 2017 morirono il boss Mario Luciano Romito, obiettivo dell’agguato, e due agricoltori innocenti: Luigi e Aurelio Luciani. È quanto emerge dalle motivazioni depositate dalla Corte il 14 febbraio scorso. Una condanna severa considerato che Caterino non è accusato di essere stato tra i killer, ma di aver fatto da basista. Era stata la corte di Assise di Foggia, con sentenza del 30 novembre 2020, a stabilire per lui l'ergastolo definendo il suo contributo operativo "determinante". Pena che i giudici di Appello, dopo aver ascoltato i collaboratori di giustizia, non solo hanno confermato, ma hanno anche aggravato prevedendo che per 18 mesi Caterino sia sottoposto a isolamento diurno.

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"Se è pur vero che furono i suoi complici a imbracciare i fucili", il ruolo di Caterino "non fu da meno". Il suo contributo operativo "determinante" Corte d'Appello di Bari

Per i magistrati della Corte, presieduta da Eustacchio Cafaro, "se è pur vero che furono i suoi complici a imbracciare i fucili", il ruolo di Caterino "non fu da meno". Di conseguenza, hanno considerato la decisione del giudice di primo grado "proporzionata all'estrema gravità dei fatti". "Ora speriamo che racconti la verità su quel giorno", aveva commentato a lavialibera Arcangela Luciani, vedova di Luigi, alla pronuncia della sentenza.

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Vecchi rancori e nuovi interessi dietro la strage di San Marco in Lamis

La vicenda risale al 2017, quando nelle campagne di Foggia un commando composto da almeno tre uomini armati di kalashnikov fa una strage. I primi a morire sono il boss Mario Luciano Romito, uscito di prigione qualche giorno prima, e suo cognato Matteo De Palma, che lo stava accompagnando a un vertice di affari in una masseria vicina. Per gli inquirenti, dietro l’assassinio ci sono i Li Bergolis, rivali dei Romito. Un tempo unite, le due famiglie si sono separate nel 2009, quando i Romito hanno organizzato un vertice-trappola in una masseria che i carabinieri avevano riempito di microspie. La riunione ha portato alla sentenza Iscaro Saburo con cui per la prima volta è stata riconosciuta l’associazione mafiosa ai clan del Gargano: ma se i Li Bergolis hanno ricevuto pesanti condanne per mafia, i Romito sono stati assolti, riuscendo a riorganizzarsi con le famiglie Lombardi, Ricucci e La Torre. Un tradimento che i Li Bergolis non hanno mai perdonato.

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Ai vecchi rancori, nel 2015 si sono affiancati nuovi interessi: sia i Li Bergolis sia i Romito volevano il controllo di Vieste approfittando di un vuoto di potere che si era venuto a creare con l’uccisione del luogotenente della città, il boss Angelo Notarangelo. Mario Luciano Romito ambiva a mettersi al centro di tutti gli affari del Gargano. Da qui, l’esigenza di farlo fuori. Il 9 agosto 2017, però, Romito non è il solo a rimanere vittima dell’agguato. Dopo averlo ammazzato, i killer incrociano un furgoncino bianco su cui viaggiano due agricoltori, Luigi e Aurelio Luciani, diretti al lavoro. I due fratelli vengono inseguiti e uccisi davanti alla vecchia stazione di San Marco. Il motivo rimane ancora oggi un mistero. Non sappiamo se abbiano visto troppo o se siano stati scambiati per qualcun altro, come Luigi Ferro, ritenuto il proprietario della masseria in cui Romito stava andando quella mattina: suo, un furgoncino bianco simile a quello in cui si trovavano i fratelli Luciani. Sconosciuta resta anche l'identità degli assassini.

Il ruolo dei collaboratori di giustizia

L'unico condannato è stato Giovanni Caterino. Secondo la ricostruzione fatta durante il processo di primo grado, nei giorni precedenti la strage Caterino ha pedinato l'auto di Mario Luciano a bordo di una Fiat Grande Punto. Il suo obiettivo era annotarne gli spostamenti, in modo da pianificare e organizzare l’omicidio. Poi, il 9 agosto del 2017, ha seguito il boss a distanza di sicurezza facendo da apripista ai sicari. Una ricostruzione che è stata confermata in Appello, dove agli elementi già raccolti dalle forze dell'ordine (intercettazioni ambientali, dati gps e analisi delle celle telefoniche) si sono aggiunte le testimonianze dei nuovi collaboratori di giustizia.

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In particolare, di Andrea Quitadamo e Danilo Della Malva, entrambi considerati attendibili dai magistrati. Andrea Quitadamo è il più giovane dei cosiddetti "fratelli baffino", ritenuti il braccio armato del gruppo Romito-Lombardi-Ricucci-La Torre nel comune di Mattinata. Agli inquirenti ha detto di essere venuto a sapere che Caterino aveva fatto da bacchetta, cioè da pedinatore, nella strage di San Marco in Lamis grazie alle indagini svolte dal proprio clan di appartenenza. Un’informazione che dopo gli è stata confermata da Tommaso Tomaiuolo, esponente del clan avversario dei Li Bergolis. Tomaiuolo avrebbe deciso di confidarsi con Quitadamo perché non veniva pagato bene e voleva passare con il suo gruppo. Gli ha così rivelato di essere stato lui, in compagnia proprio di Caterino, ad andare a Trani per prendere l’auto rubata che poi sarebbe stata usata dai killer. 

Un altro pezzo alla storia l’ha aggiunto Danilo Della Malva, il punto di contatto del clan Romito tra Mattinata e Vieste. Parlando del tentato assassinio di Caterino per vendicare la morte di Mario Luciano, Della Malva ha raccontato di aver ricevuto dai boss Matteo Lombardi e Pasquale Ricucci l'ordine di eliminare Caterino perché aveva preso parte all'omicidio di Romito, ma che per sottrarsi al comando, e a una misura di custodia cautelare, si era rifugiato in Spagna. Un altro componente del clan gli avrebbe poi confessato di essere andato al suo posto. L’agguato è poi fallito a causa di un guasto alla macchina.

"Un indispensabile contributo materiale all'evento"

Tutte informazioni che trovano altri riscontri, come l'intercettazione ambientale di una conversazione tra Giuseppe Bergantino, intestatario dell'auto su cui Caterino si sarebbe trovato il giorno della strage, e Caterino stesso. "Secondo te là sopra sta una telecamera? Quella che ti ha ripigliato?", gli chiede Bergantino. Prova – per i magistrati – che l'uomo era a conoscenza dell'esistenza di una telecamera che poteva aver ripreso il pedinamento del boss, di cui era stato informato dai carabinieri, ed era certo che nell’auto ci fosse Caterino. Per i giudici, non c’è “altra interpretazione logica possibile” alla frase “quella che ti ha ripigliato". Non solo. Poco dopo Caterino, indicando un dispositivo, replicava: "La bastarda la vedi dove sta". Una “sostanziale confessione”, dice la Corte concludendo che "può ritenersi comprovata l'attività di staffetta svolta il 9 agosto 2017 dalla vettura Fiat Grande Punto, intestata a Giuseppe Bergantino, a bordo della quale c’era sicuramente Giovanni Caterino".

"Caterino è componente del commando esecutore del quadruplice omicidio del 9 agosto 2017, formato da appartenenti al clan Li Bergolis. Omicidio che è stato posto in essere con lucida determinazione" Corte di Appello di Bari

Un’ulteriore conferma dell’appartenenza di Caterino al clan Li Bergolis, mandante dell’omicidio dei Romito, arriva invece dalle intercettazioni in cui si ascolta Caterino dire di volersi vendicare del fallito agguato. Come potenziali target individua Pasquale Ricucci e Ivan Romito, fratello di Mario, che ritiene uno dei partecipanti all'attentato. "Da una valutazione del contenuto delle chiamate, delle intercettazioni telematiche e delle riprese effettuate dalle telecamere di sorveglianza deve ritenersi provata l'intraneità di Caterino al clan Li Bergolis e la realizzazione da parte di esponenti del clan avversario dei Romito-Ricucci-Lombardi di un attentato fallito nei suoi confronti", si legge nelle motivazioni della sentenza. 

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Elementi che hanno portato i giudici a considerare Caterino "componente del commando esecutore del quadruplice omicidio del 9 agosto 2017, formato da appartenenti al clan Li Bergolis. Omicidio che è stato posto in essere con lucida determinazione, studiando abitudini delle vittime designate, predisponendo i mezzi per l'agguato e organizzando anche la fuga". Caterino ha svolto la funzione di basista fino al luogo dell'assassinio, fornendo quindi "un indispensabile contributo materiale all'evento". Ma deve ritenersi responsabile "a titolo di concorso con ignoti" anche in relazione all'omicidio dei fratelli Luciani "alla luce delle modalità feroci e plateali dell'attentato programmato nei confronti del Romito e del De Palma, nonché del luogo in cui era stato eseguito l'attentato, era pienamente consapevole di concorrere con altri soggetti alla realizzazione di un'azione criminosa idonea a provocare la morte anche di terzi soggetti, che si fossero eventualmente trovati per caso ad assistere all'agguato e che, per tali ragioni, sarebbero dovuti essere eliminati". Resta da capire chi ha sparato. 

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