28 febbraio 2023
I risparmi di oltre centomila persone in fumo, una perdita stimata in quasi sei miliardi di euro e nessuno che, tra condanne e sanzioni lievi, ne paghi le conseguenze. Il crac della Banca popolare di Vicenza (BpVi), uno dei più grossi della storia italiana, ha mietuto vittime soprattutto nel ricco e produttivo Veneto. Dal 1996 al 2015, l’istituto di credito è stato presieduto da Gianni Zonin, 85 anni, "vignaiolo prestato alla finanza" per sua definizione. Dopo aver portato al successo le Cantine Zonin, ha trainato la banca della sua città tra quelle che contano. Lui e i manager usavano però metodi scorretti, sfruttando la disattenzione dei controllori.
Finito a processo insieme ad altri dirigenti, il 10 ottobre 2022 Zonin è stato condannato a tre anni e undici mesi in secondo grado per aggiotaggio, cioè la diffusione di informazioni false per manipolare un valore finanziario, e per ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della Banca centrale europea. La pena è sospesa perché inferiore a quattro anni, il banchiere potrà inoltre contare sulla prescrizione di quasi tutti i reati. Un’altra inchiesta, per bancarotta fraudolenta, è in corso da anni e non se ne sa nulla. Le vittime, dopo aver perso grosse somme, possono contare sugli indennizzi dello Stato: difficilmente saranno risarcite dagli ex vertici della banca.
Crimine dei potenti, una questione di prospettiva
I parlamentari hanno sollevato il caso di alcuni controllori assunti nel gruppo bancario: “Scelgo i migliori”, diceva Zonin
Diventato presidente del consiglio d’amministrazione della Popolare di Vicenza nel 1996, Zonin le rifà il look e rilancia il gruppo. Nei primi anni Duemila acquista CariPrato e Banca Nuova in Sicilia e cresce fino a figurare tra le prime dieci banche italiane. È vista di buon occhio dal sistema istituzionale ed economico, ma la gestione è poco cristallina. Nel 1999 il direttore generale Giuseppe Grassano, lasciando l’incarico per disaccordi con Zonin, manda una lettera al consiglio di amministrazione denunciando favori ai familiari del presidente, spese personali “accollate” alla banca, l’occultamento di presunte perdite e altro. La procura avvia un’indagine nel 2001, ma il procuratore capo Antonio Fojadelli chiede di archiviare tutto. Un giudice, Cecilia Carreri, si oppone, ritiene che ci siano gli elementi per il processo, ma su di lei scoppia una polemica e il fascicolo viene dimenticato fino alla prescrizione. Alcuni anni dopo, ormai in pensione, Fojadelli diventa amministratore di una società controllata da BpVi.
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