25 novembre 2020
Gli attacchi all'autoproduzione da fonti rinnovabili per anni hanno imbrigliato il mercato degli impianti in autoconsumo collettivo e delle comunità energetiche a favore dei colossi dell'energia. Atlantia ha minacciato – in modi più o meno velati – di sospendere gli investimenti se non avesse ottenuto una garanzia statale di un prestito miliardario, perché la proposta di cancellare le penali in caso di revoca delle concessioni contenuta nel Milleproroghe avrebbe innescato l'incertezza dei mercati. Poi ci sono i balletti sul cosiddetto revolving doors: politici che, dopo aver rivestito ruoli istituzionali importanti, vanno a sedere nei consigli di amministrazione di grandi società con cui hanno avuto rapporti in precedenza. Sono solo alcuni degli esempi più clamorosi del lobbying all'italiana, che tiene sotto scacco la capacità delle istituzioni di prendere decisioni e virare verso scelte mirate a difendere l'interesse collettivo. Una empasse che lega le mani di politici e funzionari a ogni livello, perché mancano regole chiare e precise sulla gestione dei rapporti tra legittimi rappresentanti di interesse e lo Stato.
Non si è ancora fatta una legge sul lobbying perché la situazione attuale conviene a tuttiAlberto Vannucci - Direttore del master Apc
Una legge per regolamentare il lobbying è necessaria. Tutti la vogliono ma nessuno, al momento, riesce ad ottenerla. La chiede la politica, la vuole la magistratura, è utile agli apparati amministrativi per definire i limiti da non oltrepassare, la invocano i cittadini che vorrebbero maggiore trasparenza, la sollecitano persino gli stessi lobbisti. Perché allora non si riesce ad approvare una norma che accontenti tutti? “Non si è ancora fatta una legge sul lobbying perché la situazione attuale conviene a tutti”, spiega a lavialibera Alberto Vannucci, politologo e direttore del master Apc (Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione) all'Università di Pisa. “In questa situazione di ambiguità molto spesso si creano zone d'ombra fittissime, nei contatti tra i portatori di interessi privati e i rappresentanti istituzionali; lì può succedere di tutto e a giudicare dai benefici che alcuni concessionari pubblici, alcune lobby ottengono, qualcosa forse è successo. Non solo, ma fa capire anche che questa situazione conviene perché il rischio di un intervento di qualche organo di controllo è molto basso. Il gioco, in questo momento, vale la candela”.
La sfida dell'Anac: mappare la corruzione in Italia
Non sono più i partiti gli unici che si fanno portavoce delle istanze della società, qualsiasi esse siano. Le varie istanze si muovono da sole e quindi si moltiplicanoSusanna Ferro - advocacy officer di Transparency International Italia
Una terra di nessuno, una enorme zona grigia fatta di rapporti opachi tra politica e lobby. Relazioni che emergono solo in minima parte e solo in quei casi in cui c'è stata una sporadica e scoordinata azione di regolamentazione del lobbying. Manca la pubblicizzazione delle agende degli incontri e dei loro contenuti. Non basta essere iscritti al “Registro pubblico dei rappresentanti di interesse particolari” depositato in alcuni ministeri come quelli dello Sviluppo economico, del Lavoro, dell'Agricoltura o quello istituito alla Camera dei Deputati nel 2017, che conta qualche centinaio di iscrizioni a fronte di una platea vastissima rimasta nell'ombra. Perché è solo un'opportunità, non un obbligo alla trasparenza degli incontri e dei risultati ottenuti. Senza informazioni dettagliate resta solo un quadro parziale e vulnerabile.
“Non sono più i partiti gli unici che si fanno portavoce delle istanze della società, qualsiasi esse siano – spiega Susanna Ferro, advocacy officer di Transparency International Italia – le varie istanze si muovono da sole e quindi si moltiplicano. Questo è un problema generale delle istituzioni, che non hanno preso atto di questa crisi, e quindi non riescono nemmeno ad adeguare il passo rispetto a quanto avviene al di fuori delle stesse istituzioni". Accanto allo smarrimento della politica, si aggiunge la fine dei finanziamenti pubblici, iniziata gradualmente con il decreto legge 47/2013 – convertito dalla legge 13/2014 – e arrivato a compimento all'inizio del 2017. Il cambio di rotta rende maggiormente permeabili i partiti nei confronti dei settori privati, spesso fonte di sostenibilità dell'azione politica in generale, declinata anche attraverso le fondazioni da essi promosse.
Ad oggi in discussione ci sono tre disegni di legge: quello di Marianna Madia del Pd, di Silvia Fregolent per Italia Viva e il testo di Francesco Silvestri del M5s. Le tre proposte, simili in molte parti, sono state accorpate in un unico provvedimento nella speranza di trovare una quadra prima della fine di questa legislatura. Per ora la discussione è aperta in Commissione Affari costituzionali della Camera. Il futuro è incerto e il presente vede ancora molta frammentazione. Per ora “è tutto lasciato all'iniziativa dei singoli ministeri o delle Regioni – chiarisce ancora Ferro – Banalmente c'è un problema a livello di soluzioni tecnologiche adottate: fare trasparenza significa mettere in mano alle persone dei dati leggibili e certi. Se persino sui siti web le informazioni non sono reperibili con facilità – ad esempio nel caso di pagine htlm dove non è possibile fare ricerca – non raggiungi lo scopo per cui quel tentativo di disciplinare l'attività di lobbying dovrebbe nascere”.
In questa cornice a farne le spese sono tutti: gli organi istituzionali esposti a influenze poco chiare, i portatori di interesse a cui non viene riconosciuto il loro ruolo, la giustizia quando i rapporti opachi sfociano in comportamenti illeciti, per finire ai cittadini che non possono conoscere il percorso che ha portato a una determinata norma, che però avrà un impatto diretto su tutti. Non sempre, infatti, il lobbying è una cosa negativa, anche se in generale la parola gode di cattiva fama e ha bisogno di un'operazione non solo di restyling, ma anche di buone pratiche per essere digerita. Ferro cita ad esempio l'approvazione della legge sul whistleblowing (segnalante di illeciti, reati o irregolarità) per la quale Transparency International si è impegnata direttamente.
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Una regolazione mal costruita lascia margini di ambiguità e diventa un modo per ‘legalizzare la corruzione’, come accade spesso negli Stati Uniti dove il sistema è tutt'altro che perfettoAlberto Vannucci
C'è bisogno dunque di regole chiare, “a partire dal registro, fino alla pubblicazione degli incontri, e i documenti che vengono trattati. Sarebbe auspicabile – insiste Susanna Ferro – anche sapere qual è la legislazione di riferimento per cui si va a fare attività di lobbying. Così come si può seguire l'iter di una legge sul sito di Camera e Senato, così si dovrebbe sapere quali rappresentanti esterni hanno partecipato e come hanno contribuito alla costruzione di una determinata legge”.
Regole sì, ma ben congegnate, altrimenti si rischia un effetto boomerang, gli fa eco Vannucci, secondo cui “una forma di regolazione mal costruita, che fissa male questi paletti, che lascia margini di ambiguità, che non lascia la piena trasparenza, diventa un modo per ‘legalizzare la corruzione’, come accade spesso negli Stati Uniti, dove il sistema è tutt'altro che perfetto” e di legare le mani anche alla magistratura per la quale è già molto difficile intervenire su un terreno scivoloso e ambiguo come quello delle azioni lobbiste.
Quella sul lobbying è una delle leggi più annunciate e controverse nella storia della Repubblica italiana. Se ne contano oltre cinquanta, nessuna delle quali ha mai visto l'alba. Nel 1982 ci provò Pietro Ichino, con una proposta di legge sul “Riconoscimento e disciplina delle attività professionali di relazioni pubbliche”. La discussione non iniziò mai. Poi fu la volta di Beniamino Andreatta nel 1988, che voleva dare un nome alla platea informe che si muoveva nei corridoi adiacenti alle aule di Montecitorio e Palazzo Madama durante la discussione e l'approvazione delle leggi. Mentre più avanti, nel 2007, toccò a Giulio Santagata, ex ministro del governo Prodi, il quale propose inutilmente un “Registro pubblico dei rappresentanti di interessi particolari”.
All'elenco si aggiungono poi Pino Pisicchio con tre diverse proposte di legge, Marina Sereni, Mario Marazziti, Franco Bruno, Marco Baldassarre, Chiara Moroni, Elio Lannutti, per citarne alcuni, a cui si sommano decine di altri di ogni schieramento politico. Nel frattempo anche le assemblee regionali si sono date da fare per palesare gli incontri tra stakeholders (cioè i titolare di interessi) e politici: Toscana, Molise, Abruzzo, Calabria e Lombardia.
Nel 2013 ci ha provato l'allora presidente del Consiglio Enrico Letta, proponendo un testo per la regolamentazione dei portatori di interesse. Il testo, che non ha mai visto la luce, prevedeva che in ogni ministero vi fosse un elenco pubblico degli incontri di tutti i rappresentanti di interessi economici con il ministro o col suo gabinetto. Diverse furono le proteste, sia a livello politico sia imprenditoriale: tutti si dissero contrari alla pubblicazione delle agende.
“Nel 1996 – racconta infine Vannucci – si riunì il Comitato di studio per la prevenzione della corruzione: il cosiddetto Comitato Cassese della Camera dei deputati, dove si costruivano proposte contro la corruzione. All'interno c'erano proposte per la regolamentazione delle attività di lobbying. Nella Commissione legislativa speciale della Camera il tema fu molto dibattuto, ci furono molte proposte. Ma non ne andò in porto nemmeno una”.
Il cronometro è ripartito per l'ennesima volta, tornando all'anno zero di una legge indispensabile, che fissi paletti ma che stimoli anche una cultura della trasparenza che nel nostro Paese fatica ancora ad attecchire. I modelli a cui guardare sono diversi. Sia chiaro: la legge serve ma non basta. La trasparenza deve essere prima di tutto una cultura, non soltanto una questione di natura giuridica e burocratica.
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