28 aprile 2023
“Qui il lavoro è duro. Qui si muore”. È il 2 luglio del 2022 quando Daouda Diane, 37enne mediatore culturale originario della Costa d’Avorio e da anni residente ad Acate, in provincia di Ragusa, gira con il proprio cellulare due video in cui si sfoga delle condizioni in cui è costretto a lavorare nel cementificio Sgv Calcestruzzi Srl, dove va in cantiere senza alcuna protezione. Lo stesso giorno, di lui si perde ogni traccia. Adesso, per chiedere verità sulla sua scomparsa, oggetto di indagini per omicidio colposo e occultamento di cadavere, Libera (coordinamento di Ragusa), Cgil e Cgil-Flai promuovono un corteo nella città, dove tutto questo è avvenuto. L’appuntamento, a cui parteciperà anche Luigi Ciotti, è il primo maggio.
"Qui il lavoro è duro. Qui si muore" Daouda Diane
“In quei video Daouda non ha documentato solo le sue condizioni, ma quelle di centinaia di lavoratori della zona”, denuncia Peppe Scifo, segretario generale della Cgil di Ragusa, aggiungendo: “Non possiamo permettere che passi il messaggio secondo cui chi prova a ribellarsi rischia di sparire”. Mediatore culturale per l’associazione Medintegra, Daouda parlava bene l’italiano ed era consapevole dei suoi diritti. Per arrotondare, faceva dei lavori saltuari mai regolarizzati: dalla raccolta nei campi agli impieghi nelle aziende edili.
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Sin da subito, amici e colleghi hanno escluso l’allontanamento volontario. Soprattutto perché, dopo anni e con fatica, il 37enne aveva comprato il biglietto aereo che venti giorni dopo lo avrebbe riportato in Costa D’Avorio, dove ad aspettarlo ci sarebbero stati la moglie, la figlia, il fratello e gli altri parenti. “Per me Daouda è più di un amico, è un fratello. Mi manca molto e, dopo la sua scomparsa, tutti noi ci sentiamo meno al sicuro”.
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A parlare è Sole, 25enne originario del Senegal, impiegato come lavoratore agricolo nelle serre che si susseguono lungo la costa da Ragusa a Siracusa. Con i parenti lontani, erano loro a essere diventati una famiglia. “Ora ogni volta che vediamo qualcuno di noi salire su una macchina per andare a lavorare, ci preoccupiamo. Perché se una cosa del genere è successa a lui, allora può accadere a ognuno di noi”. Per molti di loro, infatti, Daouda era un punto di riferimento. “Aiutava tutti a tradurre documenti, rinnovare i permessi di soggiorno, iscriversi a scuola – racconta Sole – e soprattutto a essere consapevoli dei propri diritti di lavoratori. Noi continuiamo a cercare verità e giustizia per Daouda e non smetteremo”. A distanza di otto mesi, Sole fa ancora fatica a pensare che Doaouda non sia scomparso, ma morto.
"In quei video Daouda non ha documentato solo le sue condizioni, ma quelle di centinaia di lavoratori della zona. Non possiamo permettere che passi il messaggio secondo cui chi prova a ribellarsi rischia di sparire" Peppe Scifo - segretario generale Cgil Ragusa
L’ipotesi investigativa della procura è che Daouda sia stato ucciso e il suo cadavere fatto scomparire. I nomi degli indagati non sono ancora noti, ma – secondo fonti investigative – ci sono anche i titolari della Sgv Calcestruzzi Srl e alcuni loro familiari, per i quali è in ogni caso valida la presunzione d'innocenza fino a prova contraria. Nel cementificio alla periferia di Acate sono stati effettuati dei rilievi del Reparto investigazioni scientifiche e un terreno adiacente utilizzato da Sgv è stato sequestrato per reati ambientali. Nient’altro di rilevante, al momento, è emerso.
"Aiutava tutti a tradurre documenti, rinnovare i permessi di soggiorno, iscriversi a scuola – racconta Sole – e soprattutto a essere consapevoli dei propri diritti di lavoratori" Sole - amico di Daouda
Nell’ultima traccia del cellulare dell’ivoriano, la cella telefonica aggancia un campo molto vasto: poteva trovarsi a casa, nei dintorni di Acate o anche all’interno del cementificio. “Da lì nessuno lo ha visto uscire – ha sottolineato il procuratore di Ragusa Fabio D’Anna – e non abbiamo dati o elementi sull’orario in cui sarebbe andato via. Di certo, in quel cementificio è entrato e ha lavorato”. Come confermato anche da uno dei titolari: “Dal cantiere è andato via dopo un’ora e mezza di lavoro di pulizie, intorno a mezzogiorno”. Lui non era lì, ha spiegato il dirigente, ma questo è quanto gli hanno riferito. “Non lavora per noi in modo fisso e quel giorno era lì per sistemare uno spiazzale”. Impossibile ricostruire i momenti successivi: le telecamere del cantiere erano disattivate.
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Le ultime immagini di Daouda le gira lui stesso. Nel primo video, di circa un minuto, inquadra tutto il cantiere, poi gira la telecamera verso di sé per mostrare le condizioni di lavoro: nessuna protezione, nessun abbigliamento adatto. Il secondo video, di non più di 30 secondi, mostra l’uomo dentro una betoniera, intento a usare un martello pneumatico dal rumore assordante. Ha le cuffie per proteggere le orecchie e una mascherina chirurgica a coprire naso e bocca.
Nel corso delle investigazioni, intanto, è emerso che la famiglia titolare del cementificio non è nuova a indagini giudiziarie. Nel 1990, il nonno dei titolari è stato ucciso in un agguato mafioso ad Acate, raggiunto alla testa da diversi proiettili esplosi da un’auto dopo un inseguimento, dopo essere riuscito a scampare un attentato simile l’anno precedente.
Anche se al momento manca un riscontro dal punto di vista giudiziario, per Scifo c’è un legame tra la scomparsa del 37enne ivoriano e il contesto lavorativo in cui si trovava ed è importante inquadrare la storia nel suo territorio. La scomparsa di Daouda si colloca in un luogo difficile, dove si deve battagliare ogni giorno per il rispetto dei diritti. Nella cosiddetta fascia trasformata del ragusano, così chiamata perché la zona ha subito profonde trasformazioni con l’avvento delle serre che hanno slegato la produzione delle colture dalle stagioni, le irregolarità sono la norma.
“Il lavoro nero è rilevante – prosegue il segretario della Cgil – ma si affianca a forme di irregolarità più subdole, ad esempio essere inquadrati come part-time quando si lavora a tempo pieno: succede a chi è occupato nei campi, ma anche a commesse e commessi. Il fenomeno interessa tutti i comparti. Il problema non è settoriale, ma sistemico”. Indicativi sono due dati: se da un lato la provincia di Ragusa è la più produttiva della regione Sicilia, con un alto tasso di occupazione e aziende d’eccellenza, dall’altro è agli ultimi posti nella retribuzione a livello nazionale. Qui ci sono state le prime condanne nazionali per caporalato e sempre qui sono stati documentati gli interessi sia della ‘ndrangheta sia della camorra, oltre che di Cosa nostra.
È nella provincia di Ragusa, a Vittoria, che nel dicembre del 2014 è stato freddato in mezzo alla folla il boss calabrese Michele Brandimarte. A questo si somma l’alta percentuale di lavoratori stranieri che, per via della difficoltà di ottenere un permesso di soggiorno regolare, “sono più ricattabili”, precisa Scifo. Un rapporto di settembre 2022 curato da Cgil Ragusa e Adir-L’altro diritto fotografa la situazione: nel 2021, gli elenchi anagrafici Inps della provincia di Ragusa contavano un totale di 28778 lavoratori e lavoratrici di cui 14772 italiani/e e 14006 stranieri/e. Tra gli stranieri, dopo la pandemia è di molto dimunita la percentuale di lavoratori comunitari, in particolar modo di rumeni. La prima nazionalità è quella tunisina.
La vocazione del territorio rimane agricola e in molti sono occupati nelle serre, dove lo sfruttamento “assume le modalità più varie, che vanno al di là del caporalato tradizionalmente inteso”, spiega Giorgio Abate, della Flai-Cgil. C’è, per esempio, chi si fa pagare per fornire un passaggio da casa al luogo di lavoro, visto che i mezzi di trasporto pubblici sono carenti. “Si tratta di un sistema difficile da comprendere e monitorare. I braccianti prendono l’indennità di disoccupazione, ma continuano a prestare servizio nelle aziende agricole ed è impossibile tenerne traccia, così come è impossibile avere una stima di coloro che dichiarano meno giornate di quelle effettivamente lavorate. Crediamo, però, che siano la quasi totalità”. Una forma di sfruttamento che Abate definisce grigia e riguarda anche molti minori che accompagnano i propri genitori nei campi.
"Tanti vivono ancora all’interno delle aziende, in capanni degli attrezzi o garage. I lavoratori stranieri fanno fatica a trovare case da affittare" Vincenzo La monica - operatore Caritas
Secondo Vincenzo La Monica, operatore della Caritas, parte del problema sta nel fatto che le tante piccole aziende della zona “non riescono a fare fronte comune, venendo schiacciate dalla grande distribuzione”. La Monica tiene a precisare che, grazie al lavoro delle organizzazioni sul territorio, negli ultimi anni la situazione è migliorata: “Prima il compenso per una giornata di otto/nove ore sui campi si aggirava intorno ai 20 euro, adesso è comunque lontano dalla paga sindacale, ma è salito a 40-45 euro”. Un problema rimangono gli alloggi: “Tanti vivono ancora all’interno delle aziende, in capanni degli attrezzi o garage. I lavoratori stranieri fanno fatica a trovare case da affittare: in parte perché ce ne sono poche e in parte perché non sono considerati coperti da adeguate garanzie”.
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