13 luglio 2022
Tre anni da rider e un riassunto che sgrana come un rosario: mille giorni di lavoro, 46mila chilometri e sette incidenti. Senza quasi prender fiato, Enrico ne racconta due e a sentirlo parlare gira la testa. Una volta si è spaccato la faccia su uno dei tanti binari che frastagliano le strade di Torino. Era in piazza Derna, una rotonda che non finisce mai, col tram che passa proprio lì in mezzo, e diluviava: un’auto quasi gli va addosso, lui sterza di botto e scivola sulle rotaie. Un’altra volta è stato preso in pieno da un prete. Dell’impatto non ricorda niente, ma quando ha riaperto gli occhi e ha visto quell’uomo con il collarino bianco in piedi al suo fianco, ha pensato: sono in Paradiso. Non lo era. Il bip di una notifica che gli chiedeva conto dell’ordine in attesa al ristorante l’ha riportato all’infernale realtà: ha imprecato, aperto l’app, e scritto all’assistenza. Ha scritto solo che aveva male.
Aveva male dappertutto, ma non poteva né doveva dimenticarsi di fare foto e screenshot utili a documentare che non era uno scansafatiche e che no, proprio non ce la faceva a rimettersi in sella. Raccogliere le prove dell’incidente viene prima del dolore ed è qualcosa che si impara con l’esperienza perché, dopo le prime cadute e le prime contestazioni, capisci che senza quelle è la tua parola contro la loro. E la loro vince sempre.
Enrico è al servizio di una piattaforma che si occupa di consegne a domicilio. Rider è il termine che gli hanno cucito addosso perché fa figo, è cool. Ma lui sa che è un mestiere vecchio secoli: dabbawala, si chiama a Bombay, dov’è nato a fine ‘800. Ora che il lavoro è gestito tramite software e app, le cose hanno un nome diverso, più adatto alla digital economy, più in. Enrico intuisce che dietro la definizione di piattaforme non ci sono altro che aziende e che in ballo ci sono dei soldi, tanti soldi. Ecco perché è incazzato: dei sette incidenti che ha avuto solo uno gli è stato riconosciuto come infortunio sul lavoro. Prima del 2020 era il caos: le aziende offrivano un’assicurazione privata dai parametri discrezionali. Uno dei tanti trucchi con cui le imprese provano a dribblare i costi del lavoro; un trucco che, come molti altri, per un po’ ha funzionato.
L'Ue: i fattorini su due ruote vanno assunti
Nel 2019 la legge 128 ha imposto la copertura dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) anche ai ciclofattorini. La novità introdotta a partire dal febbraio dell’anno successivo ha una pecca: vale solo dal momento in cui accetti l'ordine a quando arrivi a casa del cliente. Se ti fai male mentre scendi le scale dell’appartamento in cui hai appena lasciato una pizza, fatti tuoi. L’Inail motiva la regola spiegando che è l’unico modo per sapere con certezza se l’incidente è successo sul "luogo di lavoro" o meno, qualsiasi cosa l’espressione "luogo di lavoro" voglia dire in questo contesto. Non tiene però conto che tra una consegna e l’altra spesso le piattaforme segnalano ai rider di muoversi in zone dove ci sono più richieste. E anche in quel caso, se cadi o vieni investito, fatti tuoi.
"Non è cambiato molto, ti fanno mille problemi, persino se sei in consegna", dice Enrico mentre mi mostra uno scambio di email che riguarda l’incidente di un collega: Glovo non ha riconosciuto l’infortunio perché non è stata compilata subito la pratica. "Abbiamo rotto le palle tutti i giorni prima di risolvere la situazione, è sempre un casino. Nessuno sa come comportarsi, quando ho iniziato avevo i capelli lunghi e guarda adesso". Scherza ma non troppo quest’uomo di 43 anni alto e secco come un alberello, che di cognome fa Francia e di capelli in testa non ne conta più neanche uno. È uno dei rider che ho seguito più spesso in questi mesi, durante i suoi pomeriggi di consulenza nella sede della Cgil piemontese e nelle serate di lavoro.
Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili"
I fattorini rappresentano l’ultima evoluzione del capitalismo. Una storia che inizia negli anni Novanta, fino all’atomizzazione del lavoro in singole prestazioni
Enrico è un figlio della città operaia: il papà lavorava nel polo industriale Pirelli. Anche Enrico si è fatto dieci anni in fabbrica, reparto mescole. Poi si è stufato delle sere in cui usciva da lì tutto nero, degli orari alienanti e dei padroni. Così nel 2009 ha approfittato della voglia dell’azienda di sbarazzarsi di un po’ di gente e ha investito i soldi della buonuscita nelle macchinette automatiche di bibite e snack per provare a mettere in piedi qualcosa di suo. È andata male, ha perso tutto.
A fare il rider ha iniziato per caso e nell’ex impero fordista è ancora più chiaro che altrove un fatto: questi fattorini sono solo espressione dell’ultima evoluzione del capitalismo. È una storia che inizia negli anni Novanta e che qui in città conoscono bene. Sono gli anni di quella che il sociologo Marco Revelli ha chiamato la "globalizzazione stracciona della Fiat": la produzione viene spezzettata in mille parti e affidata a ditte esterne, magari all’estero, magari nei Paesi dell’est, dove la manodopera costa meno e nessuno rivendica un accidenti di diritto. Un processo che marcia veloce a suon di esuberi, fino a oggi, all’atomizzazione estrema. Il lavoro parcellizzato in singole prestazioni: la trascrizione di un audio, la compilazione di un questionario, la scrittura di un testo, la consegna di un singolo pasto. I rider, Enrico.
Ciotti: Si muore di lavoro, ma anche senza
Qualsiasi rischio imprenditoriale è a carico dei lavoratori: sono pagati a consegna e se stanno ore in attesa di un ordine alla società non interessa
Su strada, la prima lezione che si impara è questa: per quanto gli analisti cerchino di ingabbiarli nelle statistiche, i rider sono entità pirandelliane, dai mille volti e dalle altrettante esigenze. L’esperienza cambia in modo radicale a seconda del mezzo di trasporto che usi: se hai la bicicletta normale, quella elettrica, lo scooter, il monopattino o la macchina. Prendiamo la bici tradizionale, adatta a tutte le tasche: paghi poco di manutenzione e zero di benzina, ma ti stanchi molto e rischi ancora di più. A confronto la macchina è rapida e comoda per le zone periferiche. Si rivela però molto costosa da mantenere, tra bollo, assicurazione, eventuali multe, e soldi per il pieno. Un altro parametro di giudizio da considerare riguarda le tue prospettive: lavorare come ciclofattorino può essere accettabile se lo valuti un’esperienza temporanea, lo diventa meno se hai poche chance di trovare un’alternativa. Un terzo tassello si aggiunge stabilendo se le consegne sono la tua principale fonte di reddito o ti servono per incassare qualche extra. Nel primo caso allo stato dell’arte sei costretto a districarti tra più piattaforme, a indossare la divisa di una quando dismetti quella dell’altra, o – per usare le parole di Enrico – a "girare come una trottola" per raggranellare il necessario a mantenere te e i tuoi cari. Viceversa, uno sforzo di qualche ora a settimana per un solo committente potrebbe pure bastarti.
Componendo il puzzle, ne vien fuori un quadro composito a cui fa da contraltare l’identico schema adottato da quasi tutte le grandi imprese del settore e replicato dalla maggior parte di piccole realtà fotocopia nate sull’onda entusiasmo e dal futuro a dir poco incerto. Da una parte ci sono le piattaforme che mettono in collegamento fattorini e ristoranti, trattenendo una percentuale sul costo totale dell’ordine effettuato e portato a destinazione tramite l’app. Dall’altra ci sono i rider che ci mettono il lavoro e il mezzo di lavoro, tutte le spese di mantenimento incluse. Qualsiasi rischio imprenditoriale è a carico loro perché sono pagati a consegna e se stanno ore in attesa di un ordine, magari al freddo, magari sotto la pioggia, non è interesse dell’azienda.
Il corretto inquadramento contrattuale dei rider è materia spinosa da trattare: si rischia un’operazione kamikaze. E non solo perché la giurisprudenza è ancora in evoluzione e un intervento normativo a livello europeo oggetto di dibattito. Il nodo più ingarbugliato è una frattura tutta interna al mondo dei fattorini, tra chi vuole la subordinazione e chi no. Certo, alcuni – suggerisce Antonio Aloisi, docente di diritto del lavoro all’IE University di Madrid e coautore del libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano – potrebbero essere stati abbagliati dall’apostolato dei guru della Silicon Valley, dal mito che vuole fare di subordinazione e flessibilità due realtà agli antipodi quando in verità – dice Aloisi – "nessuna norma impone ai lavoratori subordinati vincoli stringenti e la pandemia ha insegnato che la rigidità non è necessaria". Certo, altri non riescono a percepire il valore dei diritti, anche perché la parola diritto è stata progressivamente svuotata di concretezza, fino a rimanere un guscio vuoto.
Vale soprattutto nel lavoro, sempre più precarizzato con il decisivo contributo delle leggi degli ultimi 50 anni, e la conseguente crescita di quello che Marx ha definito "esercito industriale di riserva", la schiera di disoccupati utile a mantenere bassi i salari. Fino alla mazzata del Jobs Act che, spiega Federico Martelloni, professore di diritto del lavoro dell’Università di Bologna, ha indebolito anche i contratti a tempo indeterminato, alleggerendo la tutela contro i licenziamenti illegittimi. E poi: al netto dei diritti, ed esentasse, è pure vero che da autonomi i rider possono guadagnare di più. Aspetti da prendere in considerazione per capire un po’ le ragioni che motivano una fetta di fattorini a voler conservare lo status da libero professionista.
Del resto, Aloisi precisa: "Il principio fondamentale del nostro ordinamento è che un lavoro in sé può essere svolto tanto in forma subordinata quanto autonoma". Anche quello del rider, quindi. Il punto è capire quanto il modello adottato adesso lasci reale libertà e quanto la libertà percepita sia solo immaginata: una proiezione della propaganda delle aziende.
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