13 luglio 2022
In Italia oltre il 13,2 per cento delle persone si trova in condizioni di povertà anche se lavora. Avere uno stipendio spesso non garantisce né serenità né sicurezza economica. Sui luoghi di lavoro si continua a morire, al ritmo di quasi mille decessi all'anno, mentre sono in corso profonde trasformazioni che rischiano di peggiorare la situazione. Algoritmi, dati e l’intelligenza artificiale sono usati per il controllo delle prestazioni: un modello che, sperimentato su categorie come i rider, adesso “si sta espandendo in settori più tradizionali dell’economia, alterando la dicotomia tra subordinazione e autonomia”, come spiega il ministro del Lavoro Andrea Orlando.
Neppure un titolo di studio o uno stipendio più alto assicurano un’esistenza migliore. L’instabilità, e i ritmi forsennati del lavoro, che occupa tutti gli spazi di vita, alimentano ansia e senso di vergogna per ritardi e affanni che sembrano dovuti solo a incapacità personale. Si è sottoposti al ricatto delle aspettative, che traduce problemi strutturali in tanti piccoli conflitti interiori. “Un meccanismo perverso che fa comodo al sistema, perché se penso che la colpa sia mia non lotterò per cambiare le cose”, racconta la psicologa del lavoro Agnese Donati. Anche le nuove generazioni faticano a sottrarsi alla società delle performance. Francesca Romagnoli, nella puntata di Generazione Z di questo numero, narra di come ha trovato il coraggio di rinunciare al progetto di una doppia laurea italo-francese, abbassando l’asticella senza sentirsi sconfitta, optando per un titolo meno complesso e un lavoro come bidella per mantenersi durante gli studi.
Imparare a fallire per diventare grandi
A metà dell’Ottocento, il medico statunitense Samuel Cartwright sosteneva che quando gli schiavi neri fuggivano dalle piantagioni erano affetti da “drapetomania”, una patologia mentale il cui sintomo era “la fuga per evitare di svolgere il proprio dovere”. La soluzione prospettata “una violenta dose di frustate” e la rimozione degli alluci, per impedire la corsa. Oggi, secondo l’ultima ricerca Ipsad dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr (2018), sono sette milioni le persone tra i 15 e i 74 anni, più del 15 per cento della popolazione di pari età residente in Italia, che hanno assunto psicofarmaci almeno una volta nel corso dell’anno di rilevazione. Ricorrere ad ansiolitici, sonniferi e antidepressivi è diventato un modo per sopravvivere a situazioni frustranti e restare al proprio posto.
Non è semplice spiegare cosa sia il fenomeno delle cosiddette Grandi dimissioni, considerate una fuga dall’impiego dopo la pandemia, che in Italia sono aumentate del 35 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021. Forse si tratta solo di una maggiore dinamicità del mercato del lavoro, ma alcuni le interpretano anche come il sintomo di malessere diffuso. Dice la sociologa Francesca Coin: “La questione indica una consapevolezza individuale che non è semplice da dipanare. Non sarà risolutivo, ma poter verbalizzare il così non ce la facciamo più ha un grande valore, perché gli esseri umani sono sensibili alle emotività altrui, empatizzano. Se oggi è possibile un cambiamento dei rapporti di forza, questo è uno dei modi per farlo”. Prima che a qualcuno venga in mente di tagliarci anche gli alluci.
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