Un palazzo di uffici a Manhattan (Vladimir Kudinov/Unsplash)
Un palazzo di uffici a Manhattan (Vladimir Kudinov/Unsplash)

La società della performance soffre e non sa più sognare

Il lavoro fagocita gran parte del nostro tempo e la sfera personale rischia di fondersi con quella professionale, in un meccanismo che può provocare dolore fisico e mentale. La psicoterapeuta Agnese Donati spiega dove nasce il malessere e da quali trappole bisognerebbe sottrarsi

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

13 luglio 2022

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"Se aveste domandato al massimo economista del Novecento quale sarebbe stata la più grande sfida del Duemila non ci avrebbe pensato su a lungo. Il tempo libero". Lo scrittore olandese Rutger Bregman in Utopia per realisti, un’articolata analisi della società contemporanea, ragiona sullo stress provocato dal carico di lavoro. "Innumerevoli studi – scrive l’autore – hanno dimostrato che chi lavora meno è più soddisfatto della sua vita. (...) Il vero tempo libero non è un lusso e nemmeno un vizio. È essenziale per il nostro cervello quanto lo è la vitamina C per il corpo". Tutto condivisibile e desiderabile. Eppure non è un caso se Bregman nel titolo del volume utilizza la parola utopia: nel mondo reale, infatti, il costante bisogno di produrre e consumare sovrasta la possibilità di ritagliarsi del tempo per fare altro, alimentando un circolo vizioso che a lungo andare può avere effetti negativi anche sulla salute fisica e mentale di chi lavora.

La psicoterapeuta Agnese Donati
La psicoterapeuta Agnese Donati

Agnese Donati è specializzata in psicoterapia a orientamento cognitivo-costruttivista. Da anni lavora come consulente nell’ambito di progetti di supporto allo stress lavoro-correlato, operando in aziende anche di grandi dimensioni e interagendo con liberi professionisti, soprattutto tra giovani adulti (fino a 35 anni). Istruttrice di protocolli mindfulness-based (ovvero che applicano la cosiddetta “meditazione di consapevolezza”) rivolti alla riduzione dello stress, secondo gli insegnamenti del medico statunitense Jon Kabat-Zinn, si occupa in particolare di esperienze traumatiche complesse, disturbi d’ansia, depressivi e patologie che implicano dolore cronico. Da quando ha iniziato a lavorare in questo ambito le è già capitato di seguire centinaia di persone.

"Oggi il lavoro occupa la quasi totalità del nostro tempo e anche quando gli introiti sono notevoli manca il tempo per spendere quei soldi. Qualcuno è felice, tanti altri sono insoddisfatti e questo a prescindere dal guadagno. Spesso è una questione di aspettative, cosa sognavamo e cosa è successo davvero. Una discrepanza che può essere fonte di grandissima sofferenza".

Lavorare non basta

Nella società dell’apparire, dominata dai social network e dalla spasmodica ricerca del consenso, la crisi lavorativa si mischia il più delle volte a quella personale. "Quello che siamo coincide con quello che facciamo e la commistione può risultare molto pericolosa. Soprattutto tra i più giovani, una serie di obiettivi che prima erano visti come prioritari, ad esempio sposarsi o avere dei figli, ora non lo sono più. Nulla di male, se non fosse che adesso conta soltanto la realizzazione professionale. Se al lavoro va bene sei figo, se va male sei un fallito". Il confine tra personale e professionale è sempre più labile, con le due sfere che si sovrappongono. "Molte persone mi raccontano che subito dopo un colloquio il capo chiede loro l’amicizia sui social. Non va bene, la nostra vita privata dovrebbe restare fuori da tutto ciò che è lavoro".

L’esaltazione del lavoro

Essere oberati di lavoro è un vanto e più sei incasinato più sei cool: è la società della performance

È sufficiente cliccare su Instagram per imbattersi in una di quelle immagini che mostrano giovani lavoratori fieri di esporre il loro armamentario: auricolari, due smartphone, pc e tablet, con il testo d’accompagnamento che enfatizza l’impegno, l'iper connessione, quasi fossero macchine indistruttibili capaci di resistere venti ore al giorno e produrre.

Scrivono "non si molla mai": essere oberati di lavoro è un vanto e più sei incasinato più sei cool. "Così funziona la società della performance, che ha smarrito la capacità di sognare, con un appiattimento verso il basso e il proliferare di passioni tristi, elementi che determinano un impoverimento spirituale significativo. Oggi è più facile essere allineati al sistema – sulla carta desiderabile da chiunque – e pochi disobbediscono, ci si aspetta di vivere secondo certi modelli ed è difficile uscire da quel paradigma, vuol dire mettere a rischio l’appartenenza al gruppo sociale di cui si fa parte. Siamo alienati, componenti di una catena di montaggio che forse non è più ripetitiva come in passato, ma che detta sempre i tempi. È la società che decide cosa dobbiamo fare, che il ritmo sia imposto da noi è solo un’illusione".

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Il libero professionista non è per nulla libero

Chi non ce la fa, e allenta la presa, prova spesso vergogna. Un meccanismo che fa comodo al sistema: se penso che la colpa sia mia, non lotto per cambiare le cose”Agnese Donati

Il numero di lavoratori precari e liberi professionisti in Italia è in costante aumento. Lo scorso febbraio l’Istat contava oltre tre milioni di persone assunte con contratti a termine, più del 17 per cento del totale dei dipendenti. E anche le partite Iva continuano a crescere, soprattutto in settori che fino a poco tempo fa assumevano a tempo indeterminato.

"Ci sono mestieri che tradizionalmente non erano precari e ora lo sono, lo stesso vale per le libere professioni. L’instabilità, il continuo bisogno di adattarsi, i ritmi difficili da gestire diventano fonte di grande malessere, soprattutto se si condivide la vita con il partner o una famiglia. Ci si trova dinanzi a una sorta di aut aut, ma scegliere è impossibile; e allora si continua a fare tutto, con un affanno sempre maggiore che rischia di farci implodere. Un’ansia costante, come se si vivesse in uno stato di allerta permanente che impedisce di rilassarsi, sempre alla ricerca di un’alternativa più stabile. Chi non ce la fa e allenta la presa prova un senso di vergogna, come se non avesse fatto abbastanza. Un meccanismo perverso che fa comodo al sistema, perché se penso che la colpa sia mia non lotterò più per cambiare le cose".

Nella gestione della precarietà un ruolo fondamentale è giocato dalla famiglia, dalla rete sociale che circonda ciascuno di noi. "Non sempre il partner capisce la nostra sofferenza, a volte si è accusati di essere pigri, di non darsi abbastanza da fare, un’escalation che può portare alla rottura del rapporto. Chi è da solo, invece, se da un lato gestisce con più facilità le situazioni di stress, dall’altro corre un rischio maggiore di rassegnarsi, di chiudersi in se stesso e non cercare una via d’uscita".

Questione di leadership

Il malessere lavorativo si verifica anche in azienda e in tale contesto, il più delle volte, l’origine del disagio risiede nelle dinamiche umano-relazionali che si instaurano all’interno del gruppo. "Ci sono team che non funzionano, capi che non sono riconosciuti come tali. Risolvere problemi simili è complesso, anche perché nella fase iniziale c’è molta diffidenza verso l’intervento psicologico. Il primo passo consiste nell’eliminare il clima giudicante e crearne uno collaborativo, quindi si organizzano una serie di lavori per guadagnare la fiducia degli interlocutori, come interviste e giochi. In molte aziende lavoriamo solo con i manager, perché una leadership illuminata è fondamentale per il funzionamento dell’azienda. È frequente imbattersi in capi dispotici, che non si fidano dei loro dipendenti, non ne riconoscono i meriti, che danno per scontato l’impegno. Ci sono manager che non delegano e non hanno alcuna stima verso chi sta sotto, che con le loro azioni contribuiscono a creare un clima di favoritismo e anti-meritocratico. Oppure, al contrario, dirigenti che instaurano relazioni amicali e perdono la loro autorità. Il malessere al vertice della piramide raggiunge in fretta la base e più si è in basso più ci si sente impotenti".

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Implicazioni fisiche

I primi segnali di malessere sono quasi sempre fisici. Frequenti i problemi di insonnia: dormire poco, male, con frequenti interruzioni. "La mente non riesce a "staccare", non esiste lavorare fino a tardi e addormentarci a comando. Il corpo necessita di riposo, che non per forza deve coincidere con il sonno. C’è bisogno di ozio, parola che ormai, purtroppo, ha un’accezione negativa".

Lo stress da lavoro può ripercuotersi sulla digestione, provocare dolori muscolo-scheletrici, nei casi più gravi intaccare l’apparato cardiovascolare. "Quando mangiamo dovremmo sederci e fermarci ma non tutti possono farlo, ed ecco che si moltiplicano i casi di reflusso e le gastriti. La postura errata determina fastidi alla schiena, alle mani e agli occhi". A questa sfilza di disturbi si affiancano quelli mentali. "Manifestazioni ansiose più o meno rilevanti, un’inquietudine che permea l’intera giornata. Qualcuno prova un senso di inutilità fino alla perdita del senso stesso, altri alternano fasi depressive a nervosismo".

In un quadro così compromesso la minaccia più frequente si chiama burnout. "A un certo punto nella nostra testa non c’è più spazio, il sovraccarico diventa impossibile da gestire. Vivere in uno stress cronico è tossico per il corpo, perché l’essere umano è fatto per alternare momenti di stress a momenti di calma, non riuscire a seguire questo ciclo non è salubre. Molti vivono un disagio fisico di bassa intensità ma costante, che con il trascorrere del tempo può degenerare in guai più seri".

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Cosa si può fare

Questo tipo di disagio si è normalizzato. In tanti pensano "è vero, fa schifo ma è così per tutti", così ci si sente meno soli

È in questa fase che bisogna allentare la presa, trovare il coraggio per decelerare. "Purtroppo non esistono strutture adeguate che supportino questo percorso e chi sceglie di seguire la filosofia del downshifting– lavorare e guadagnare meno in cambio di più tempo libero – è giudicato uno sfigato, il poverino che non ce l’ha fatta. È una situazione paradossale, perché ci stressiamo per guadagnare tanto e poi spendiamo molto denaro per curarci".

La consapevolezza di avere intrapreso una strada potenzialmente senza uscita è fondamentale per provare a svoltare. "Bisogna dare al proprio malessere un valore preciso. Tante volte, proprio perché il mal di lavoro è così diffuso, non gli diamo il giusto peso, questo tipo di disagio si è così tanto normalizzato che quasi non lo trattiamo. In tanti pensano "è vero, fa schifo ma è così per tutti", riconoscere il problema nelle persone che ci stanno a fianco ci fa sentire meno soli. Dopo, serve compiere un lavoro più profondo, decostruire alcuni significati socialmente condivisi e capire se davvero ci corrispondono o se, al contrario, li abbiamo semplicemente assorbiti per osmosi, solo perché siamo immersi in quell’ambiente. Oltre all’aiuto e al supporto di chi abbiamo vicino, possono rivelarsi molto utili percorsi basati sul ritrovare il contatto con il corpo, sulla mindfulness – una pratica di meditazione che consiste nel prestare attenzione con intenzione al momento presente, in modo non giudicante – e, quando necessario, un intervento psicologico strutturato".

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