Aggiornato il giorno 15 maggio 2023
“Non mi resta che pregare e rendermi invisibile”. Monzer ha 34 anni, una moglie e due figli, di sette e quattro anni. Nato e cresciuto ad Aleppo, nel nord della Siria, dal 2012 al 2017 ha vissuto sotto le bombe e le armi chimiche di Assad e di Russia e Iran suoi alleati. Poi, la decisione di fuggire ed attraversare la frontiera settentrionale del Paese. Un viaggio di due ore, attaccato sotto ad un camion per sfuggire ai controlli.
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Da allora Monzer vive con la famiglia a Gaziantep, nel sud della Turchia. Lavora come responsabile sicurezza per un’ong che opera nel settore sanitario e il più grande dei suoi figli frequenta una scuola pubblica della città. Mentre il paese si prepara a scegliere tra il presidente uscente Erdogan e lo sfidante Kilicdaroglu nel ballottaggio del 28 maggio, Monzer evita il più possibile di mostrarsi in pubblico. “Potrei essere aggredito in quanto siriano ad ogni momento”. E prega. Che le promesse dei due candidati di rispedire tutti i rifugiati siriani “a casa loro” facciano la fine dei tanti impegni elettorali mai onorati.
Il dibattito sul futuro dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che oggi vivono in Turchia ha occupato uno spazio di primo piano nella campagna elettorale. Sorprendentemente, tutti i partiti condividono la stessa linea, seppur con sfumature diverse: prima se ne vanno, meglio è. Il presidente in carica, Recep Tayyip Erdogan, che al primo turno ha sfiorato il 50 per cento dei voti, lavora da mesi per normalizzare le relazioni con il dittatore siriano Assad e raggiungere un accordo per il rimpatrio degli esuli.
Sorprendentemente, tutti i partiti condividono la stessa linea sui rifugiati siriani, seppur con sfumature diverse: prima se ne vanno, meglio è
“Da siriano e oppositore del regime, mi fa male sentire parlare di normalizzazione e vedere che si sta cercando di riciclare quel criminale”, dice Monzer a lavialibera. “Ha le mani sporche del sangue di migliaia di siriani, ma il mondo sembra dire ‘non è un nostro problema’”. L’anno scorso, il presidente Erdogan aveva annunciato un piano per il “trasferimento volontario” di un milione di rifugiati nella porzione di territorio siriano che la Turchia occupa militarmente. Secondo Human Rights Watch, centinaia sono stati trasferiti nei mesi successivi, ma di volontario non c’è stato nulla: “Gli agenti turchi li hanno arrestati e detenuti in condizioni precarie, hanno picchiato e abusato della maggior parte di loro, li hanno costretti a firmare moduli per il rimpatrio volontario, li hanno portati alla frontiera e li hanno costretti ad attraversarla minacciandoli con le armi”, si legge nel rapporto dell’organizzazione.
Dall’altro lato, Kemal Kilicdaroglu, il candidato dell’opposizione che tanti in Occidente presentano come il “Gandhi turco”, è stato ancora più netto: “Diremo arrivederci ai nostri ospiti siriani entro due anni”, ha dichiarato lo scorso marzo, specificando che il trasferimento avverrà con l’accordo del regime di Damasco, “con cura e senza razzismo”. “Non abbiamo nessuno a cui fare affidamento, tutti i partiti sono contro di noi”, constata amareggiato Monzer. La formazione di estrema destra Zafer Partisi – il Partito della vittoria – ha addirittura lanciato una raccolta fondi per l’acquisto di “biglietti di sola andata per Damasco” destinati ai rifugiati, con tanto di Iban dedicato.
Migranti: la speranza non è un reato
Secondo un sondaggio realizzato nel 2021 per l’ufficio turco dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), tra il 60 e il 70 per cento degli intervistati turchi crede che la presenza dei siriani danneggi l’economia del paese e la qualità dei servizi pubblici, che portino violenza e criminalità e che sottraggano posti di lavoro ai locali. La metà degli intervistati turchi non gradirebbe lavorare con un siriano o che dei siriani venissero ad abitare nel proprio quartiere, e l’80 per cento non accetterebbe che un membro della famiglia si sposasse con una persona di nazionalità siriana.
Eppure non è stato sempre così. Dall’inizio della rivoluzione del 2011 contro il regime di Assad, presto degenerata in guerra civile e poi in conflitto internazionale, la Turchia è stata in prima linea nell’accoglienza dei siriani in fuga. È arrivata ad ospitarne 3,6 milioni, diventando il primo paese al mondo per numero di rifugiati. La ragione è innanzitutto geografica: i due paesi condividono una frontiera di più di 900 chilometri, e la Turchia è un passaggio obbligato per i tanti esuli siriani intenzionati a raggiungere l’Europa. Ma è anche perché l’ospitalità ha sempre fatto parte della cultura e della storia del paese.
“La Turchia moderna è costruita in gran parte sull’immigrazione e l’asilo”, spiega a lavialiberaNermin Aydemir, ricercatrice e insegnante esperta in politiche migratorie all'università di Antalya, nel sud della Turchia. “La presenza di rifugiati non ha mai rappresentato un problema, e posizioni apertamente xenofobe non hanno mai acquisito grande rilevanza nel panorama politico nazionale come invece accade in Europa”. Tanto che anche le forze populiste di destra, come il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Erdogan, hanno sostenuto posizioni pro-rifugiati. È stato proprio Erdogan a promuovere la politica di accoglienza verso gli esuli siriani, che considerava “fratelli” dei turchi nella grande comunità musulmana di cui si erge a protettore, e a garantire a tutti una speciale “protezione temporanea”.
“La Turchia moderna è costruita in gran parte sull’immigrazione e l’asilo e la presenza di rifugiati non ha mai rappresentato un problema", dice Nermin Aydemir, dell'università di Antalya
Toni e politiche hanno però iniziato a cambiare quando si è capito che la guerra in Siria sarebbe andata avanti a lungo, e che quindi la permanenza dei siriani in Turchia sarebbe stata tutt’altro che temporanea. A mettere in crisi la politica dell’accoglienza, spiega Aydemir, hanno contribuito altri due fattori: da un lato, il deterioramento della situazione economica del paese, di cui tanti hanno iniziato a imputare le colpe ai rifugiati e al governo troppo generoso nei loro confronti. Dall’altro lato, l’adeguamento alla strategia europea di esternalizzazione delle politiche migratorie, culminato con la firma dell’accordo del 2016 in virtù del quale la Turchia si è impegnata a dare ospitalità ai rifugiati siriani e impedirne il flusso verso l’Unione in cambio di un finanziamento da 6 miliardi di euro. “È allora che la politica turca ha iniziato ad adottare il linguaggio della politica migratoria europea, con termini come “immigrazione irregolare”, “prevenzione”, “controllo””, continua la professoressa.
Che la presenza dei rifugiati abbia avuto un impatto sull’economia turca è innegabile. Oltre all’enorme spesa pubblica che l’accoglienza e l’assistenza ha comportato per lo Stato, solo in parte colmata dagli aiuti internazionali e dal finanziamento europeo, ci sono gli effetti sul mercato del lavoro: come certifica l’Organizzazione internazionale del lavoro, la maggior parte dei rifugiati siriani lavora nel mercato informale e spesso accetta salari più bassi rispetto ai turchi, rendendoli così più competitivi agli occhi di datori con pochi scrupoli per la legge e per i diritti dei lavoratori. La crescente domanda di alloggi da parte dei rifugiati siriani ha anche fatto schizzare i prezzi del mercato immobiliare, con conseguenze sulle tasche del resto della popolazione turca.
Secondo Monzer, però, soffermarsi solo sugli effetti negativi produce un’immagine distorta della realtà. “Tra i rifugiati ci sono anche centinaia di imprenditori siriani di successo che qui hanno aperto aziende, portato ricchezza e creato posti di lavoro per i turchi. Tanti rifugiati, poi, lavorano in settori in cui i turchi non sono disposti a lavorare, come l’edilizia o l’agricoltura. In ogni caso – continua – le responsabilità per questa situazione non sono da addossare ai rifugiati, che spesso non hanno altra scelta per sopravvivere, ma al governo turco che è stato incapace di dare risposte adeguate”. Concorda la professoressa Aydemir: “I rifugiati sono le prime vittime della mancata integrazione, vivono per lo più in ghetti, sono spesso impiegati in condizioni molto difficili e lo status di protezione temporanea li rende estremamente vulnerabili”.
La paura di cosa possa accadere dopo il 28 maggio tocca anche chi è perfettamente integrato, come Yasser. Nato e cresciuto a Damasco, nel 2013 ha lasciato la capitale siriana sotto le bombe per il Libano, e poi da lì in Turchia via mare. Oggi Yasser ha 26 anni, vive con la famiglia a Basaksehir, quartiere bene di Istanbul, e studia medicina presso l’università pubblica della città. “So di essere un’eccezione, la maggior parte dei siriani come me non è affatto integrata in Turchia”, racconta a lavialibera. Basta però che passeggi per strada con un amico “visibilmente siriano” o con la madre che porta il velo alla maniera siriana perché qualcuno gli ricordi che è “altro”: “Capita che le persone ci aggrediscano verbalmente, o che i commercianti ci impongano la “tassa siriana”, cioè ci facciano pagare di più solo perché siamo siriani”.
A due settimane dal ballottaggio, Yasser non nasconde la sua inquietudine: “Mi manca solo un anno per diventare dottore, ma ho paura di poter perdere tutto da un momento all’altro”. Non potrà votare Yasser, ma dice che tutti i suoi amici siriani che hanno ottenuto la cittadinanza turca – sono circa 200mila i rifugiati siriani diventati cittadini turchi – voteranno per Erdogan: “Lui parla di rimpatrio solo per convincere gli indecisi, e quelli che ha espulso erano clandestini e criminali – dice Yasser –. Kilicdaroglu invece fa sul serio”. In vista di una possibile espulsione, il padre di Yasser, che in Turchia è un imprenditore di successo, ha ottenuto per lui e la famiglia i passaporti di Saint Kitts and Nevis, minuscolo stato caraibico che offre la cittadinanza a stranieri facoltosi in cambio di ingenti investimenti.
La paura di cosa possa accadere dopo le elezioni tocca anche chi è perfettamente integrato
C’é anche chi, come Feras, la scelta di lasciare la Turchia già l’ha fatta. Originario di Talbiseh, nel nord-ovest della Siria, durante la guerra ha visto cinquanta tra amici e familiari morire sotto le bombe. Dopo tre tentativi falliti e 4mila dollari spesi per i trafficanti, nel 2016 è riuscito ad attraversare la frontiera turco-siriana. Fino a due mesi fa, Feras viveva e lavorava a Osmaniye, nel sud della Turchia, con la moglie e le due figlie, di sette e otto anni. Ma il clima di crescente ostilità verso i siriani e l’incertezza sul futuro l’hanno portato a lasciare casa, di nuovo.
“Qualche mese prima di partire, mia figlia ha chiesto a mia moglie di non mettere più cibo siriano nello zaino, perché a scuola veniva presa in giro”, racconta a lavialibera. Ora Feras e la sua famiglia abitano nella periferia di Parigi e attendono che le autorità francesi confermino la loro richiesta d’asilo. Anche se ormai lontano dalla Turchia, continua a seguire la campagna elettorale e il dibattito sul rimpatrio dei rifugiati siriani, sempre più incredulo: “Dove dovremmo andare? Nelle città controllate da Assad, quello che ha ammazzato la nostra famiglia e i nostri amici? O nelle città controllate dai ribelli, sotto le bombe di Assad e dei russi?”, si chiede. “Tutti i siriani vorrebbero tornare, ma senza Assad, senza le bombe, senza le milizie per strada”.
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