1 giugno 2020
Abbiamo tenuto le edicole aperte, durante il lockdown da coronavirus. Abbiamo fatto bene perché era prima di tutto una questione di democrazia e l’informazione in questi mesi è stata un bene di primaria necessità. Nessun ristoratore o altro commerciante ha osato dire: “Perché loro sì e io no?”. Ma mai come durante la quarantena ci siamo resi conto che l’informazione sta scivolando via dalla carta: per giorni siamo stati appesi alla conferenza stampa della Protezione Civile delle 18 che entro pochi minuti si trasformava in tabelle piene di dati (e di preoccupazioni e speranze) sui siti dei maggiori quotidiani. Conferenze stampa in diretta web, approfondimenti e long reading, interviste via Skype e Zoom ci hanno permesso di restare attaccati all’informazione che era ed è anche vita.
Il Covid-19 ha reso tangibili e urgenti questioni di cui nel mondo dell’informazione e nei giornali si discute da tempo. La questione, di fatto, è come mantenere viva l’autorevolezza del giornalismo professionale sulle piattaforme nate nel secolo scorso (carta, Tv), trasferirla su quelle dei giorni d’oggi (testate web, blog, social ecc) e su quelle (oggi ignote) che ancora devono venire. E non è, si badi, una questione corporativa e neppure nominalistica. Si può cambiare il nome all’operatore professionale dell’informazione, ma il punto è come mantenere il patto non scritto in base al quale il giornalista è quello che passa la sua giornata a cercare e approfondire notizie mentre gli altri cittadini (che di notizie hanno bisogno come il pane) sono occupati nelle loro altre molteplici attività. In quel patto, fin dal secolo scorso, c’era scritto che il giornalista avrebbe cercato di fare il meglio possibile, secondo scienza, coscienza e conoscenza. Il grande cambiamento portato da internet sta nel fatto che tutti, in qualunque momento della loro giornata, sono in grado di raggiungere sui loro smart phone, sui tablet e sui desktop dei loro uffici, il grande calderone dell’informazione e osservarlo mentre bolle, “assaggiando” le notizie in tempo reale e facendosi un’idea di quello che sta accadendo nel momento stesso in cui accade e prima che il giornalista abbia finito di cucinarle.
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Probabilmente, nessuna generazione umana è mai stata informata come e quanto questa. Il problema sono proprio le modalità con le quali i cittadini raggiungono le informazioni di cui hanno necessità e il ruolo che deve avere l’informatore professionale. Nel mare magno dell’informazione internettiana il lettore tende a non fare differenze e, nei limiti delle sue capacità di discernimento, sarà portato a prendere tutto o quasi per buono (o per malvagio). Soprattutto quello che, in quel particolare momento, corrisponde di più o di meno al suo “sentiment” e allo stato delle sue viscere. La disintermediazione, il superamento del ruolo e dell’autorevolezza del giornalista può sembrare (e a molti sembra) il raggiungimento di un grado superiore di libertà. In realtà, probabilmente, è solo il modo in cui tutte le notizie (comprese le fake news) finiscono per avere lo stesso valore.
Una volta, il giornalista era l’unico che poteva andare alle fonti delle notizie: raccoglieva, confrontava, scriveva e, se sbagliava, al massimo il giornale riceveva qualche lettera di protesta che veniva liquidata con risposte spesso “tranchant”. Oggi, le notizie sembrano essere alla portata di tutti e l’intermediazione giornalistica ha valore solo se davvero “consegna” al lettore qualcosa che non sarebbe in grado di procurarsi da solo. Questo “qualcosa” costa fatica, tempo, viaggi, strumenti tecnologici sofisticati (come l’intelligenza artificiale che può aiutare il giornalista a tirar fuori il succo di documenti di migliaia di pagine) e va declinato su diversi supporti: testo, foto, video che danno vita a long form complessi. Le redazioni internet dei grandi quotidiani sono ancora formate da gruppi troppo ristretti di giornalisti che “distribuiscono” ottimamente il prodotto, ma non hanno la massa critica sufficiente per costruire oggetti informativi complessi e soddisfacenti per il lettore. Troppi giornalisti, in proporzione, sono ancora impegnati a confezionare l’edizione cartacea.
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Non si vuol dire, qui, che le informazioni su carta siano destinate a sparire. Ciascuna piattaforma: quella cartacea (quotidiana e periodica), la sua “rappresentazione” digitale (con le pagine le foto e tutto) per i tablet e i computer, quella in tempo reale decisamente sempre più “visual”, corrispondono a diverse esigenze e a un diverso rapporto spazio/temporale. Ci sarà sempre bisogno, probabilmente, di un appuntamento quotidiano, settimanale o mensile con un blocco di carta più o meno pesante che resti nelle nostre case e di cui ci si possa riappropriare anche senza tenere in mano un device digitale. Ma ci sarà soprattutto bisogno di oggetti integrati tra i diversi supporti che ci rimandino da un luogo all’altro (fisico o virtuale) dei nostri processi informativi. Lo Slow Journalism può essere semplicemente un processo complesso e approfondito di confezione della notizia il cui “output” (carta, web, video, e-book) diventa relativamente importante.
Non solo, siccome il lettore passa gran parte del suo tempo sui social, è lì che il giornalista deve raggiungerlo pronto a essere criticato, a sporcarsi le mani seduto allo stesso tavolo con il suo lettore. Non basta, ormai, mettere i pezzi (tutti i giornali lo fanno) su Facebook, Twitter, Youtube, Instagram e, magari, su Tik Tok. I professionisti dell’informazione devono entrare a far parte delle “comunità” che seguono i loro giornali. Come? Una strada (finora poco battuta) potrebbe essere quella di dare un vero e proprio appuntamento sui social del giornale: “Domani, alla tale ora, il giornalista XY sarà a disposizione sulla nostra pagina Fb”. Per far cosa? Quello che nessun giornalista oggi ama fare: spiegare la genesi del suo pezzo; raccontare quali sono state le sue fonti; perché l’ha scritto così e non colà… E ancora: come si sviluppa la storia, cosa scriverà domani sull’argomento. Lo criticheranno? Certo. Ma attraverso la sua capacità di rispondere alle critiche e di spiegare se stesso e il suo lavoro, il giornalista potrà riprendere l’autorevolezza perduta e riappropriarsi di quel “quid” che stabiliva la differenza tra il professionista dell’informazione e il consumatore di informazioni.
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Ovvio che, per fare tutto questo ci vogliono persone altamente qualificate e risorse. Ma dalla capacità dei giornali del prossimo futuro di stare in questo modo sul web e di accumulare abbonamenti (la pubblicità, da sola, non ce la fa più) che dipende la loro credibilità e il loro modello di business.
Il New York Times ha scelto nel 2014 la strada del “digital first”. In cinque anni è arrivato a 5 milioni di abbonati: 3,4 alle news, online, 900mila dalla versione digitale dell’edizione cartacea, il resto con gli spin off digitali. I ricavi degli abbonamenti digitali sono saliti a 800 milioni di dollari, la pubblicità sul web ha superato quella sulla carta. Il giornale di carta è sceso da 950 mila a 440 mila copie, ma il digitale ha supportato egregiamente la perdita e, adesso, il NYT, non è mai stato così florido.
Riuscirà qualche giornale italiano a riprodurre, fatte le debite proporzioni, la stessa storia di successo digitale? A trasferire sul web tutto il suo prestigio e autorevolezza? A credere ai lettori che l’aspettano sul web più che ai politici che misurano ancora lo spazio delle loro dichiarazioni sui giornali di carta?
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