Camorra nel basso Lazio, qualche verità e ancora tanti misteri sui Bardellino

Indagini in corso nel sud Pontino si concentrano sulle vicende della famiglia Bardellino, prendendo le mosse da una sparatoria avvenuta nel 2022. E rispunta l'ipotesi che il boss Antonio, esponente del clan dei casalesi, non sia in realtà morto nel 1988

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1 agosto 2023

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Tanti misteri e qualche verità. È il risultato delle indagini che in questi giorni hanno scosso il basso Lazio, terra da anni al centro degli interessi della camorra, e a cui lavialibera ha dedicato uno dei suoi dossier speciali, trascorrendo una settimana nella zona per intervistare attiviste e attivisti che lottano contro le mafie. Ci sono due indagati per una sparatoria avvenuta a Formia il 15 febbraio 2022. Episodio per cui la direzione distrettuale antimafia muove ora l'accusa di tentato omicidio a carico di due persone, residenti in città. Loro bersaglio era Gustavo Bardellino, nipote del più noto Antonio Bardellino, uno dei capi storici dei casalesi, che – secondo la ricostruzione ufficiale – sarebbe stato ucciso in Brasile nel 1988, anche se il corpo non venne mai ritrovato. E proprio su Antonio si concentra la maggior parte dei misteri, a causa di alcune nuove intercettazioni e del ritrovamento di un bunker, che alimentano i dubbi sull'effettivo assassinio del boss negli anni Ottanta.  

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La sparatoria a danno di Gustavo Bidognetti

Non è ancora chiaro il movente dello scontro a fuoco che nel febbraio dello scorso anno ha perforato la spalla di Gustavo Bidognetti, mentre era al lavoro nell'autosalone di famiglia, in via Appia. Ma l'ipotesi è un regolamento di conti interno al clan dei casalesi. Uno dei due indagati è, infatti, l'ex marito di Katia Bidognetti, la figlia di Francesco detto Cicciotto 'e Mezzanotte, anche lui esponente di primo piano dell'organizzazione criminale campana. L'altro è un costruttore edile di 47, originario di Caserta, ma residente a Formia. Ciò che c'è di certo è che il pubblico ministero Vincenzo Ranieri indaga sull’ipotesi che Gustavo Bardellino e il cugino, ora entrambi sotto inchiesta, abbiano tenuto un gruppo diventato il punto di riferimento dei casalesi tra Formia, Gaeta e Minturno.

Stando alla ricostruzione dei collaboratori di giustizia, nella "zona pontina tutte le attività illecite venivano svolte sotto il controllo del clan dei casalesi e, sia pure con forme di sottordinazione dovute alla storia della consorteria, da esponenti della storica famiglia Bardellino, che ne rappresentavano la lunga manus sulla zona", scrivono i magistrati nel decreto di perquisizione eseguito martedì dalla Direzione investigativa antimafia nei confronti di 28 persone. 

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Il bunker e le intercettazioni

Poi c'è il mistero, la grande ombra di Antonio Bardellino, sparito nel nulla da ormai 35 anni. In base alla sentenza del grande processo contro i casalesi, Spartacus, è morto 1988 a Buzios, in Brasile, e il cadavere sepolto sotto la sabbia della spiaggia di Copacabana. In realtà, però, la famiglia l'ha fatto dichiarare morto dal tribunale solo nel 2018 e sulla sua reale sorte si sono sempre fatte congetture. Oggi a sostenere la pista che il suo omicidio sia stato inscenato c'è un'intercettazione al vaglio dei magistrati. I protagonisti sono Silvio Bardellino e Gustavo De Vita, rispettivamente il fratello e il figlio naturale di Antonio. "Saluta papà", dice lo zio al nipote. Una frase sufficiente ad alimentare i dubbi.

E poi c'è il ritrovamento di un bunker: un piccolo vano sotterraneo, alto 170 centimetri, all'interno di un appartamento nel Villaggio del Sole, al civico 7 di viale dei Pini, a Formia. Una casa che fino al 1995 è stata intestata alla seconda moglie di Bardellino e oggi intestata a un signore di 81 anni, indagato per favoreggiamento. Per ora, l'unica persona a finire agli arresti è un 73enne, trovato in casa con una pistola semiautomatica e priva di matricola. Questo ultrasettantenne formiano è stato il primo, otto anni fa, a dire alla polizia che il boss era ancora vivo, sostenendo anche di averlo incontrato. Forse solo suggestioni, chissà. 

Anche nel sud Pontino la camorra corteggia la politica

Da Casal di principe al Seven Up: l'ascesa di Bardellino 

La storia racconta che il boss Antonio Bardellino aveva puntato sul basso Lazio già alla fine degli anni Settanta, spostando gli affari dalla natìa San Cipriano d’Aversa, piccolo centro confinante con Casal di Principe, in provincia di Caserta, spostando gli “affari” – a cominciare dal narcotraffico – nel sud Pontino, lontano dai nemici cutoliani e dalle faide interne alla Nuova famiglia, di cui Bardellino era il massimo esponente. In poco tempo il boss era riuscito a imporsi sul territorio e, proprio come i sovrani che conquistano un nuovo feudo, aveva deciso di costruire lì il suo castello: non un luogo in cui dimorare, bensì quello dove stringere accordi e pianificare strategie. Per realizzare il suo piano, Bardellino si era affidato, tra gli altri, ad Aldo Ferrucci, originario di Sessa Aurunca, nel Casertano, che diventò formalmente il proprietario del Seven Up, dal 1980 al 1985 la più grande e spettacolare discoteca d'Europa. In questo enorme blocco di cemento armato, ricoperto di specchi, glitter e luci laser la criminalità organizzata ha stravolto le regole del gioco. Dentro il santuario della musica dance, destinato a durare appena un lustro, la famiglia Bardellino decise di costruire il suo quartier generale, schermato dai decibel e da torme di persone impazienti di gettarsi in pista. Non era più necessario nascondersi in covi bui e remoti: le decisioni più importanti ora potevano essere prese negli uffici insonorizzati della discoteca più desiderata dell’epoca.

La storia della discoteca Seven Up di Formia

La sparatoria del 15 febbraio 2022 a danno di Gustavo Bardellino, nipote di Antonio, è stata una delle ragioni per cui il 2 giugno successivo, giorno del patrono cittadino, il parroco don Antonio Micalusi ha parlato duramente di fronte alle autorità e la cittadinanza racconta in chiesa. "La nostra città, che amiamo tanto sta vivendo un degrado che non ha mai vissuto – ha detto don Micalusi dall'altare – La retorica che la mafia non è presente non ci incanta più. Sappiamo che c’è un cancro da estirpare". "Non è più tempo di farci gli affari nostri – ha insistito – questo è il tempo della responsabilità e della partecipazione, le ambiguità vanno risolte altrimenti la storia le giudicherà duramente". 

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