Aggiornato il giorno 12 maggio 2023
C'è una storia che più di altre spiega l’incidenza e l’evoluzione della camorra nel basso Lazio. È quella della discoteca Seven Up di Formia, dal 1980 al 1985 la più grande e spettacolare d’Europa. In questo enorme blocco di cemento armato, ricoperto di specchi, glitter e luci laser la criminalità organizzata, con a capo il boss Antonio Bardellino, ha stravolto le regole del gioco. Dentro il santuario della musica dance, destinato a durare appena un lustro, l’onorata società del sud Pontino decise di costruire il suo quartier generale, schermato dai decibel e da torme di persone impazienti di gettarsi in pista. Non era più necessario nascondersi in covi bui e remoti: le decisioni più importanti ora potevano essere prese negli uffici insonorizzati della discoteca più desiderata dell’epoca.
Leggi l'intervista a Manolo dj, tra i simboli del Seven Up
"Chiunque può commettere un errore ma nessuno, tranne uno stolto, dovrebbe persistere nell'errore", amava ripetere Cicerone, decapitato e amputato più di duemila anni fa mentre si trovava nella sua villa a Vindicio, la zona di Formia che la camorra ha ricoperto di abusi edilizi. Gianola è un quartiere a vocazione agricola a un quarto d’ora d’auto dal centro città, non troppo distante dalla costa e dal confine con la Campania. Il fiume Garigliano traccia una linea tra i due territori: da una parte la provincia di Caserta, purtroppo terra di fuochi e di camorra, e dall’altra la provincia di Latina, all’apparenza più tranquilla ma non meno esposta alle presenze criminali.
Il frinire delle cicale scandisce il silenzio piacevole e tipico dei posti di campagna, ma c’è stato un tempo in cui da queste parti il rumore della natura era impossibile da udire. Oggi dalla vegetazione emergono i resti di una cattedrale contemporanea, ricoperti da graffiti estemporanei, ma negli anni Ottanta era tutta un’altra musica. Su questo terreno sorgeva il mitico Seven Up, le cui vicende sono raccontate con dovizia di particolari da Salvatore Minieri nel libro I Pascià.
Anche nel sud Pontino la camorra corteggia la politica
La discoteca aprì per la prima volta al pubblico la sera di Carnevale del 1980, costruita in soli nove mesi e senza alcuna licenza sui terreni dell’entroterra, spazzando via una porzione di collina e di bosco. Un’enorme struttura in calcestruzzo edificata su un’area di oltre 5mila metri quadrati, capace di accogliere a pieno regime fino a 8mila persone: una delle zone più tranquille della città trasformata in bolgia. Il Seven Up non riposava mai: apriva nel tardo pomeriggio e suonava fino all’alba; una manciata di ore di chiusura, poi le imprese di pulizia rimettevano in ordine, iniziavano le prove dei ballerini e così via. "Il sonno è immagine della morte", proferiva Cicerone, quasi giustificando la nascita, secoli dopo, di quel mastodontico tempio della musica.
Non si ha notizia del ruolo degli enti locali quando gli operai iniziarono i lavori. Nessun funzionario osò chiedere un’autorizzazione né prima né dopo, quando il locale entrò in funzione. È anche vero che una carta bollata non avrebbe probabilmente prodotto alcun effetto, visto che nel 1979 i Bardellino avevano ottenuto senza problemi il via libera per cementificare località Vindicio attraverso il “Progetto case unifamiliari associate in Formia”, storpiando per sempre quei luoghi bellissimi.
Già all’epoca era chiaro a tutti che il vero proprietario del Seven Up – il nome omaggiava un celebre documentario di Paul Almond – fosse Antonio Bardellino, ritenuto il fondatore del clan dei Casalesi. Il boss aveva messo le mani sul basso Lazio alla fine degli anni Settanta e gradualmente si era allontanato dalla natìa San Cipriano d’Aversa, piccolo centro confinante con Casal di Principe, in provincia di Caserta, spostando gli “affari” – a cominciare dal narcotraffico – nel sud Pontino, lontano dai nemici cutoliani e dalle faide interne alla Nuova famiglia, di cui Bardellino era il massimo esponente. In poco tempo il boss era riuscito a imporsi sul territorio e, proprio come i sovrani che conquistano un nuovo feudo, aveva deciso di costruire lì il suo castello: non un luogo in cui dimorare, bensì quello dove stringere accordi e pianificare strategie.
Bardellino aveva puntato sul basso Lazio alla fine degli anni Settanta, spostando gli affari dalla natìa San Cipriano d’Aversa
Per realizzare il piano Bardellino si affidò a un personaggio chiave di questa e altre vicende criminali del tempo: Aldo Ferrucci. Originario di Sessa Aurunca, nel Casertano, formalmente il proprietario del Seven Up, era lui che controllava gli affari della cosca grazie alla sua astuta intraprendenza. Ferrucci aveva ottimi rapporti con gli esponenti della Democrazia cristiana e della massoneria, era capace di parlare nei salotti buoni e nei peggiori covi di delinquenti, sempre elegante e sicuro di sé. Un businessman moderno, con in tasca un’agenda ricca di contatti sparsi in tutto il mondo.
Ferrucci si servì della Banca popolare del Golfo di Gaeta – dal quale ottenne senza presentare nessuna garanzia un prestito da circa due miliardi di lire, utilizzati per costruire il Seven Up, costato più del doppio. La banca, che di fatto riciclò il denaro della camorra proveniente dalla provincia di Caserta, poggiava sul nulla, tant’è che crollò nel 1983 insieme allo stesso Ferrucci, arrestato dalla Guardia di finanza e in seguito diventato collaboratore di giustizia.
Basso Lazio, dove mafie e corruzione non fanno scandalo
Per dirigere gli spettacoli del Seven Up il manager individuò un pezzo da novanta, il regista e produttore cinematografico Aldo Pomilia, fondatore della Apo Film. Un maestro delle scenografie, che qualche anno prima aveva sposato Chelo Alonso, diva cubana proprietaria insieme al marito della casa discografica Aris, ultima azionista della società che controllava la discoteca.
Pomilia ebbe a disposizione un budget pressoché illimitato: ordinò di acquistare un impianto laser da 120 milioni di lire che illuminava torri metalliche alte decine di metri, mentre un uomo travestito da robot danzava a ritmo di musica. E, soprattutto, riuscì ad avere i migliori artisti in circolazione: nell’estate 1981 sul palco del Seven Up arrivarono, fra gli altri, Milva, Raffaella Carrà, i Pooh, ma anche calibri internazionali come Ray Charles e Grace Jones. Quello stesso anno avrebbe dovuto esibirsi pure James Brown, che rinunciò all’ultimo a causa di un contrattempo.
Nell’estate 1981 sul palco si esibirono Raffaella Carrà, i Pooh, ma anche Ray Charles e Grace Jones
Per tanti ragazzi dei primi anni Ottanta il Seven Up era un locale di culto. La voce che nel sud del Lazio c'era una discoteca mai vista prima, con piste da ballo costruite su acquari pieni di pesci tropicali, si diffuse a macchia d’olio superando i confini nazionali, tant’è che certi giornali europei dedicarono interi articoli alla creatura di Bardellino. Alcune agenzie di viaggio organizzavano viaggi in pullman con pernottamento in albergo, senza la certezza di ottenere un ingresso. I più avventurosi dormivano in tenda nelle campagne vicine, con la polizia municipale che puntualmente doveva sgomberare.
Come molte storie di eccessi, anche quella del Seven Up terminò nel peggiore dei modi. Alle 22.36 del 3 agosto 1985, un sabato sera di euforia come tanti altri, in una delle mansarde della discoteca avvenne un’esplosione che lasciò decine di ragazzi feriti sotto le macerie di una copertura collassata. La deflagrazione uccise due giovani dipendenti della discoteca poco più che ventenni: Maurizio Massi e William “Billy” Gibson. Le taniche di vaselina e varie miscele di esplosivi ritrovate nel locale avrebbero dovuto instillare più di qualche dubbio sulla dinamica dell’evento, ma il caso fu archiviato dagli inquirenti come un tragico incidente tecnico. Il produttore cinematografico Aldo Pomilia e altre persone finirono in carcere, capri espiatori di una vicenda più grande di loro.
Nell’agosto 1985 un’esplosione uccise due giovani dipendenti: Maurizio Massi e William “Billy” Gibson. Sulla tragedia non è mai stata fatta chiarezza
Qualche mese dopo, qualcuno appiccò un incendio che distrusse definitivamente ciò che rimaneva della discoteca ed eventuali prove. Oggi è noto che la deflagrazione avvenne poche settimane dopo il passaggio di proprietà da Bardellino a Ferrucci, diventato a tutti gli effetti il titolare del locale e pronto a disimpegnarsi dal clan. Per alcuni il mito non si arrestò neppure dinanzi alla tragedia e sul posto in frantumi, ancora circondato dal fumo, arrivarono in centinaia per accaparrarsi un pezzo dell’indimenticabile Seven Up, da conservare come una reliquia.
Dopo anni di oblio, il 31 luglio del 2000 l’italo-francese Gerard Mallozzi, proprietario del terreno su cui sorgeva il Seven Up, ha venduto l’area e i resti (abusivi) dell’ex discoteca al Comune di Formia per 720 milioni di lire. Nel 2003, l’amministrazione guidata dal sindaco Sandro Bartolomeo ha destinato decine di migliaia di euro ai vincitori di un concorso nazionale per la riqualificazione dell’intera area, da trasformare in un moderno centro congressi.
Sud Pontino, melting pot criminale
Nel 2012, però, il nuovo primo cittadino Michele Forte è ripartito da zero, per realizzare all'interno dell'ex-discoteca un polo socio-sanitario per il recupero e la riabilitazione degli alcolisti, prevedendo una spesa in parte finanziata dalla Regione Lazio, che ha inviato un anticipo da 90mila euro. A Forte è poi subentrato ancora Bartolomeo, che non ha proseguito l’iter del predecessore. Nel 2018 la Regione ha inviato tre solleciti per riavere indietro il denaro mai utilizzato, con la sindaca di allora, Paola Villa, che ha dovuto restituire i soldi, decretando l’ennesimo fallimento della politica locale. Come direbbe Cicerone: "Il loro silenzio è un’eloquente affermazione".
Negli anni d’oro del Seven Up a mixare in consolle era Manolo dj, un disk jokey toscano appena più che ventenne, scelto personalmente dal direttore artistico Aldo Pomilia. Considerato l’enfant prodige della disco music, a Formia Manolo ottenne la definitiva consacrazione diventando un’icona. "Sono passati quarant’anni – racconta oggi – ma resto ancorato al mito di questa discoteca che non ha avuto eguali. Tanti ancora si ricordano di me, il mio nome è legato certamente al Seven Up, ma dopo l’esplosione del 1985 non ho avuto più il coraggio di tornarci, preferisco conservare il ricordo di un posto incredibile".
Negli anni Ottanta le discoteche italiane erano all’avanguardia e il locale di Formia rappresentava il top. "Abbiamo lanciato nuove mode, per la prima volta il pubblico poteva ascoltare generi come il reggae e la musica elettronica. Peter Tosh, che suonava insieme a Bob Marley, mi regalò un disco di platino perché sosteneva che avevo contribuito a diffondere la sua musica in Italia". Mentre sulle piste si alternavano star e spettacoli di prim’ordine, nei piani alti la camorra tesseva le sue trame. "Non sapevamo nulla, eravamo tantissimi dipendenti, parti di un ingranaggio colossale. Nell’ultimo periodo circolavano molte voci, ma noi pensavamo a suonare e a divertirci. Poi l’incidente riportò tutti con i piedi per terra; quella sera lavoravo a Sorrento e mi dissero che Maurizio e Billy erano morti, li conoscevo bene perché erano miei collaboratori. Fu una tragedia inaspettata e tutto finì all’improvviso".
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