(Marek Piwnicki/Unsplash)
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Fabio Anibaldi Cantelli: "La felicità è fare di se stessi fiamma"

Una volta nati, non troveremo più la condizione di stabile comunione col Tutto. Sulla Terra, però, possiamo scoprire una felicità nuova, così bella da liberarci dalla nostalgia della prima

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

6 novembre 2023

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"Sono un vigliacco, non posso sopportare la sofferenza di essere felice". Riportando questa frase del grande poeta romantico John Keats, Emile Cioran ha scritto: "Per penetrare qualcuno, per conoscerlo davvero, mi basta vedere come reagisce a questa confessione di Keats. Se non capisce subito, inutile continuare".

La sofferenza di essere felici

Credo sia un buon punto di partenza per tentare una riflessione sulla felicità. Tema arduo, forse impossibile, perché felicità è parola che può essere accostata a tutto, come Dio. E, come Dio, rivelarsi irriducibile a ogni paragone, attributo, definizione. Un altro fecondo punto di partenza potrebbe essere quel passo di La nascita della tragedia, dove il giovane Nietzsche, professore a Basilea a soli 27 anni, scrive: "L’antica leggenda narra che il Re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace, finché, costretto dal re, pronuncia fra stridule risa queste parole: 'Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è… morire presto'".

Sofferenza di essere felici, non essere nati. E nel caso si nasca – atto per antonomasia involontario – sperare di morire presto. Dalla nascita della tragedia alla tragedia dell’essere nati. Per la felicità non sembrerebbe dunque esserci spazio, nel tragico teatro dell’esistenza umana. Meglio insomma mettersi il cuore in pace: la vita è una valle di lacrime, e se qualcosa di lieto e felice ci attende bisogna sperare si trovi al di là della valle, nella regione incognita a cui conduce la morte.

Ma le cose stanno davvero così? Non c’è relazione tra vita e felicità? E allora perché tutti, nessuno escluso, abbiamo sperato di essere felici e, in qualche momento, pure creduto di esserlo? Perché la felicità è un’aspirazione a cui è impossibile rinunciare, una speranza irriducibile?

Aveva forse ragione il trentaduenne Giacomo Leopardi, giovane uomo ancora adolescente per sensibilità e intensità di desideri, ad accusare la natura di essere una matrigna venditrice d’illusioni, come quella di avergli fatto amare l’adolescente Silvia per poi lasciarla morire di un male incurabile? Che sia la vita stessa la malattia da cui è impossibile guarire, una metastasi d’illusioni infrante e desideri frustrati? Sono domande enormi, macigni che hanno sbarrato ma insieme orientato l’infinita epopea dell’essere umano sulla Terra. Domande che hanno innescato grandi opere di poesia, filosofia e letteratura, testi attraverso i quali l’homo “sapiens” ha avuto il coraggio di porsi, o meglio esporsi, a quella domanda a cui è impossibile rispondere: perché la vita è così penosa e assurda? Che senso ha venire al mondo per godere solo di qualche fugace sollievo, desiderare una felicità che non arriva o quando arriva non basta mai, e infine morire?

Aspettative disattese

Quando hai 16-17 anni concepisci la felicità come una fiammata, un orgasmo. Ma, tanto alto il fuoco, tanto rapido il suo estinguersi

Domande che nel mio piccolo ho cominciato a pormi anch’io nell’adolescenza, quando il sospetto che la vita sia un fenomeno colossale del tutto privo di senso si affaccia periodicamente ad appesantire la delusione di gioie troppo brevi o di felicità bruscamente interrotte da un evento avverso. Chi non ha le ha vissute? Chi non ha pensato come Giacomo Leopardi che la vita non mantiene quello che promette?

Quando hai 16-17 anni concepisci la felicità come una fiammata, un orgasmo. Ma, tanto alto il fuoco, tanto rapido il suo estinguersi, ed eccoti lì, meditabondo, a osservare il mucchietto di cenere e chiederti se per caso non sia stato un sogno e se comunque siano augurabili felicità intense quanto passeggere, che hanno il non trascurabile svantaggio di rendere più penoso il ritorno alla vita quotidiana. Tanto vale allora suicidarsi, capita pure di chiedersi a quell’età...

Sì, perché nella mente dell’adolescente il suicidio non è sempre ascrivibile al cosiddetto disagio, parola d’insopportabile genericità ripetuta da schiere di psicologi che delle loro adolescenze hanno conservato solo ricordi ma rimosso i sentimenti. Nell’adolescente il suicidio può essere, al tempo stesso, dichiarazione e atto di guerra contro una vita deludente, incapace di contenere i suoi desideri o, peggio, di suscitarli e poi lasciarli languire. Suicidarsi per dire "io esisto", scrivendolo con parole che lui spera eterne, indelebili, mentre sono dette al vento o scolpite nell’acqua.

L'adolescenza è l'età dello specchio

L’adolescenza, del resto, è la stagione della seconda nascita, il tempo magico in cui, riconoscendosi come individui, si calca la scena del mondo con piglio e ambizioni inedite, ebbri del sentirsi al tempo stesso attori e autori, padroni e registi del proprio destino. Sensazione di potere sulla vita che può estendersi fino alla morte: sarò io, non la morte, a decidere quando morire. Nella mente di un adolescente ebbro di sé il suicidio può configurarsi come un togliersi la vita per togliersi la morte. In tutto ciò la felicità rischia di restare una chimera, una parola da canzonette, uno sbuffo di cipria… E non solo per chi ha vissuto adolescenze che dalle fiammate intermittenti sono passate al rogo costante, all’incendio che tutto devasta. Anche chi ne è uscito illeso o con ferite superficiali continua da adulto a chiedersi se esista o meno la possibilità di essere felici o la felicità sia qualcosa che non dipende da noi, qualcosa che accade così, senza ragione, e che, come inizia, finisce.

Un bene su cui insomma è bene non fare affidamento, ma di cui pure, accontentandosi nel frattempo di un più umile “benessere”, è impossibile non augurarsi l’avvento. Ecco, è proprio questa fede irriducibile l’aspetto più intrigante del problema felicità. Perché non possiamo fare a meno di sperare di essere felici e di esserlo, se non per sempre, il più a lungo possibile? E da dove ci viene questa fede coriacea, tetragona a urti, smentite, delusioni?

Una nuova felicità

"Per la felicità è come per la verità: non la si ha ma ci si è. Felicità non è che l’essere circondati, l’'essere dentro', come un tempo nel grembo della madre. Ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo"Theodor Adorno

La traccia di una possibile risposta l’ho intravista cinque anni fa, il giorno in cui, meditando su estasi e roghi del passato, mi è venuto istintivo associare il deliquio che provavo diciottenne sotto l’effetto dell’eroina al senso di protezione che devo aver provato quand’ero vivo ma non ancora nato, nel grembo materno.

La conferma che fosse una traccia gravida di scoperte è arrivata qualche giorno dopo, quando, sempre nel mezzo di una meditazione, ho afferrato un volume che mi guardava dallo scaffale della libreria come a dirmi: "Sono 30 anni che conviviamo da separati in casa, è arrivato il momento di conoscerci". Il volume era Minima moralia – meditazioni della vita offesa di Theodor Adorno, uno di quei libri che quand’ero ragazzo bisognava aver letto e che proprio per questo mi ero guardato dal leggere. Saggio in cui il filosofo, musicologo e sociologo tedesco analizza con scrittura estrosa e profetica profondità certe tendenze della società occidentale appena uscita dalla guerra mondiale, tendenze che sarebbero sfociate nell’attuale omologazione di massa.

Ebbene, quel giorno afferro il volume, lo apro a caso e l’occhio si posa incredulo su queste righe: "Per la felicità è come per la verità: non la si ha ma ci si è. Felicità non è che l’essere circondati, l’'essere dentro', come un tempo nel grembo della madre. Ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice".

Nell'uso della droga c'è la ricerca di un'esperienza unica: quella nel grembo materno

Una felicità che si chiama "ricerca della felicità ". È questo che cerco di dire agli adolescenti che incontro nelle scuole

Cortocircuito, visione, comprensione: in un baleno le domande di una vita hanno trovato casa… Se la speranza della felicità è una fede irriducibile in ciascuno di noi è perché ciascuno di noi, prima di nascere, è stato felice. Il deliquio prenatale – quel "sentimento oceanico" snobbato da Freud come cascame mistico non psicoanalizzabile – si è impresso a tal punto del nostro essere incosciente ma già senziente da renderci affamati per sempre di felicità.

Il punto è che, una volta espulsi dal grembo tramite quel trauma supremo chiamato nascita, non ritroveremo più su questa Terra quella condizione di stabile comunione col Tutto. E allora che fare, disperarsi come il giovane Leopardi e accusare la natura di frode? O magarsi togliersi la vita per dimostrarsi superiori alle sue bassezze, come hanno fatto schiere di adolescenti dal giovane Werther ai giorni nostri?

No, non c’è motivo di disperarsi tantomeno di spararsi se si ha la pazienza di riflettere sul limite del proprio esistere – vale a dire la dimensione spazio-temporale nella quale siamo stati gettati – e comprendere che è proprio quel limite a rendere la vita appassionante, avventurosa.

Se fuori dal grembo ne avessimo trovato un altro uguale, a quella primigenia felicità avremmo fatto l’abitudine e alla lunga ci sarebbe venuta a noia se non a orrore. Invece qui, sulla Terra desolata segnata da tempi e attese, distanze e lontananze, possiamo scoprire una felicità nuova, diversa e così bella da liberarci dalla nostalgia della prima.

Coltivare le passioni adolescenziali

Una felicità che si chiama "ricerca della felicità ". È questo che cerco di dire agli adolescenti che incontro nelle scuole e coi quali sempre il dialogo tocca il tema della natura della felicità e della possibilità di essere felici."Sì, è possibile – rispondo – a patto d’individuare, nell’incandescente età che state vivendo, la vostra passione principale, la cosa facendo la quale vi sentite vivi come mai vi è capitato, per la quale vi sentite chiamati come fosse la vostra ragion d’essere e a cui non rinuncereste per nulla al mondo. E, una volta individuata, coltivatela con dedizione e rigore senza preoccuparvi che sia conforme alle mode e ai modelli proposti dal “mercato”, lui sì davvero venditore d’illusioni e ladro di anime.

Alla vostra età pensavo anch’io che la felicità fosse una fiammata, un’esplosione, un orgasmo. I tanti roghi nei quali ho rischiato di morire mi hanno insegnato che felicità non è un incendio ma una fiamma accesa e custodita ogni giorno con cura. Mi hanno insegnato che conta il cammino, più della meta, anzi che la meta è il cammino stesso. Abbiate cura delle vostre passioni perché sono i motori della conoscenza e una vita non protesa all’Altro e all’Oltre è una vita sprecata. I paradisi sono posti sereni ma inerti, dove non accade nulla. La vita è inquietudine ma l’inquietudine diventa inquietante se non ne fate cibo per la vostra anima". "Ma tu sei felice, dunque?". "Sì, come chiunque viva una vita nella quale sente ancora palpitare i sogni e i desideri dell’adolescenza".

Da lavialibera n° 23, Cosa è la felicità?

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