David Bowie. Foto: T. Ehrmann/Flickr
David Bowie. Foto: T. Ehrmann/Flickr

Bowie in mostra a Torino. Un atto di restituzione e gratitudine

Riflessioni a margine della mostra fotografica David Bowie-Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti, aperta fino al 26 febbraio presso l'Archivio di Stato di Torino

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

22 gennaio 2023

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Ho preferito visitarla in un giorno feriale e a più di un mese dall’apertura perché i miei incontri con David si sono sempre svolti in contesti intimi, silenziosi e quasi deserti, come il paesaggio del New Mexico delle prime sequenze di “L’uomo che cadde sulla terra”. Intimità che ho sentito espropriata – arrivo a dire violentata – quando l’incontro è avvenuto in mezzo a migliaia di persone, le due volte che, a Milano, ho assistito a un suo concerto, nel 1990 e nel ’96.

Locandina della mostra
Locandina della mostra

Il pomeriggio di giovedì 19 gennaio c’erano invece le condizioni ideali per la traversata: pochissima gente in un luogo carico di storia ma essenziale, dove si cammina peraltro su un bellissimo pavimento di pietra antica: l’Archivio di Stato di Torino.

Nessuno come lui mi ha invitato, a volte spinto, a riconoscere l’Altro e l’Oltre dell’esistere, nessuno come David mi ha capito, incoraggiandomi nell’ardua ma anche avventurosa ricerca di me stesso

Traversata perché ogni mio incontro con Bowie, a quarantott’anni di distanza dal primo avvenuto non credo del tutto fortuitamente un giorno del 1975, quando tredicenne m’imbattei nella copertina di Aladdin Sane (quell’immagine di lui col volto attraversato da un lampo che Brian Duffy, l’autore dello scatto, ha definito “la Gioconda del pop”) ogni incontro con David, dicevo, ha comportato l’attraversare la mia vita con la barca, a volte la zattera, della memoria emotiva. Perché niente e nessuno – né luoghi, né persone, né animali, né libri – le è stato come lui accanto, spronandola e accudendola al tempo stesso; nessuno come lui mi ha invitato, a volte spinto, a riconoscere l’Altro e l’Oltre dell’esistere, nessuno come David mi ha capito, incoraggiandomi nell’ardua ma anche avventurosa ricerca di me stesso.

Forse solo la scrittura lo ha eguagliato per costanza e fedeltà, sicché se qualcuno mi domandasse quali sono state le passioni più grandi della mia vita, le passioni che si sono insinuate in ogni suo anfratto e piega contagiandola col loro ardore, non avrei dubbi a rispondere: "la scrittura e David Bowie".
Passioni tra l’altro complementari, l’una causa ed effetto dell’altra, perché la scrittura come esercizio quotidiano e disciplinata passione – la scrittura non più “diversione” o rêverie adolescenziale – ha preso forma a diciott’anni, all’inizio di ottobre del 1980, quando i miei scoprirono la mia tresca con l’eroina e dopo un mese di cura a base di fleboclisi “ricostituenti” – la mia anemica magrezza era già allora un problema per i medici – flebo che quotidianamente veniva ad applicarmi un gentile e giovane medico, decisi di restare a casa per altri due, volontario auto-lockdown che aveva come scopo il riflettere su che senso e forma volessi dare alla mia vita, ai frammenti che ogni giorno, pigiando i tasti dell’Olivetti Lettera 22 che ancora ho con me, affidavo alla scrittura.
Ebbene la colonna sonora di quelle scritture fu l’appena uscito Scary monsters.
Non c’è pezzo di quel disco che non sia inciso nella carne del mio essere, che non mi sottoponga ogni volta a una grandine emotiva che ha per effetto un sentimento di commossa gratitudine per la mia vita tempestosa e per David, che a quelle tempeste ha dato canto, note e senso.

La mostra è bellissima. Steve Schapiro, del resto, è stato fotografo animato da un rabdomantico talento nello scovare il simbolico di certe esistenze e di ritrarlo in immagini memorabili: Muhammad Alì e Martin Luther King, Robert Kennedy e Andy Warhol, Samuel Beckett e Truman Capote, per dirne alcune. E David Bowie, ovviamente.
Cosa ha visto Schapiro in Bowie?

Bowie era al tempo stesso riservato e gentile, forte e fragile, ascetico ed eccessivo, metodico ed improvvisatore. Nemmeno la bellezza sfuggiva alla dinamica anfibia del suo essere. Schapiro si è reso conto che il mistero si manifestava in diversi modi e che la sua chiave stava appunto in questa varietà

Direi – usando una parola bellissima quanto negletta – l’anfibìa, l’armonioso coesistere di apparenti opposti. Bowie era al tempo stesso riservato e gentile, forte e fragile, ascetico ed eccessivo, metodico ed improvvisatore. Nemmeno la bellezza sfuggiva alla dinamica anfibia del suo essere (gli psichiatri, con la loro smania di definire, chiamerebbero questa dinamica “bipolare”). Bellezza che, del resto, è per essenza esorbitante, impossibile da racchiudere in una definizione. Bowie era terribilmente bello perché non aveva nulla di artefatto, perché non si metteva mai in scena o in posa: era sempre un passo oltre dove pensavi si trovasse, era inquietudine incarnata.
Cercando presumibilmente di cogliere e ritrarre il mistero Bowie, Schapiro si è reso conto che il mistero si manifestava in diversi modi e che la sua chiave stava appunto in questa varietà: ecco allora il tentativo di cogliere l’uno nel molteplice e il molteplice nell’uno, tentativo di fissare in immagine il segreto di quella non soltanto “estetica” bellezza.
Le foto sono state scattate sul set de L’uomo che cadde sulla terra o in situazioni attinenti al film.

È il periodo, tra il 1975 e il ’76, in cui Bowie è dipendente della cocaina dopo aver coltivato con la coca l’illusione di una conoscenza diretta delle cose.
"Il mito della droga – dirà nel ’93 in un’intervista – ci porta a credere che, prendendola, avremo accesso ai segreti del cosmo. Ma non è così. Non se ne ricava nulla di utile, a parte, forse, qualche fugace rivelazione".

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Diamond dogs, Young americans e Station to station – a cui stava lavorando all’epoca del film – sono dischi realizzati durante la discesa nell’abisso e il tentativo disperato di uscirne, prima della decisione di lasciare l’America e di cercare a Berlino una “heimat” per la propria irrequietudine: "It’s not the side-effects of the cocaine, I’m thinking that it must be love" canta in Station to station, parole che, più che riflessione, suonano come disperato atto di fede…
Anch’io ho coltivato quell’illusione, proprio alla fine dell’auto-lockdown di tre mesi durante il quale, ascoltando Scary Monster, avevo messo il mio destino in mano alla scrittura.
In quei testi scritti a macchina che ho riletto con emozione e stupore durante il lockdown mondiale della primavera 2020, ricorre il tema del linguaggio: a diciott’anni ero ossessionato dalla questione linguistica ma non secondo i termini dettati dalla semiologia, disciplina molto in voga all’epoca. M’interessava la relazione – sempre che ci fosse – tra linguaggio e verità, m’interessava capire se, attraverso le parole, potesse dirsi e darsi la verità di un’esperienza o se il parlarne equivalesse fatalmente a falsificarla. Mi rodeva il dubbio, divenuto via via sospetto, che il parlare fosse inevitabilmente un “parlare d’altro”, un eludere.

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Poi arrivò il fatale sabato 31 gennaio 1981, quando su un prato della Darsena, punto d’incontro dei Navigli milanesi, incontrai la cocaina in vena. E per un istante di strabiliante durata, scaturito da un tempo diverso da quello cronologico, un tempo che rivelava un legame con l’eternità, vidi il mondo com'era prima che fosse catturato nella rete dei linguaggi, un mondo in cui non c’erano ancora “cose” ma soltanto eventi.
Fu una delle “fugaci rivelazioni” di cui avrebbe parlato David rievocando gli anni in cui era prigioniero del sortilegio, sortilegio su cui avrebbe messo in guardia proprio all’epoca della mia iniziazione alla coca, quando in “It’s no game”, forse la canzone più intensa di Scary monsters, avverte che non esistono più strade dirette al paradiso: "no more free steps to heaven".
Giovedì scorso, all’archivio di Stato di Torino, non sono insomma andato a visitare una mostra fotografica su David Bowie: ho compiuto un atto di restituzione e gratitudine.
«It’s too late to be grateful», ha cantato David in “Station to station”.
Ma la mia gratitudine per te, David, non conosce ritardi essendo una gratitudine al di là del tempo. Durerà finché vivrò e oltre, nel tempo eterno che, su questa Terra, fugacemente abbiamo incontrato, tempo eterno della mia gratitudine e del mio amore per te.
 

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