(Mishal Ibrahim/Unsplash)
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Devianza, una parola indecente

Il dibattito che ha coinvolto Giorgia Meloni e certi politici ha rivelato una sconsolante pochezza umana e culturale, che si allarga anche ai cosiddetti esperti interpellati sulla questione

Fabio Cantelli Anibaldi

Fabio Cantelli AnibaldiScrittore

21 settembre 2022

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Poeta d’indiscutibile grandezza, Dante non è però stato uno di quelli su cui mi sono formato. Da studente di un liceo classico milanese intitolato a un altro grande scrittore cattolico, Alessandro Manzoni, studiando il primo canto dell’Inferno non ho provato quel brivido lungo la schiena che segnala nell’adolescenza la parola che pare scrutarti dicendo qualcosa con cui un giorno, presto o tardi, dovrai fare i conti. Con Dante questa consonanza non c’è stata, preclusa da un aggettivo che appare proprio all’inizio della Commedia quando il poeta descrive il turbamento angoscioso che lo colse a metà circa della vita dopo aver smarrito la "diritta via". Via che, una volta ritrovata, lo avrebbe condotto dalle pene dell’Inferno alle divine beatitudini del Paradiso.

Lo smarrimento della “diritta via”

La mia lunga e drammatica storia con le droghe pesanti mi ha collocato fuori delle mappe del “bene” tracciate dalle morali borghesi, cattoliche e anche comuniste. La mia repulsione per la parola devianza rinasce ad allora

Io che non credevo in Dio e nemmeno avevo fedi temporali di carattere politico, non percepii nell’espressione “diritta via” l’inquietudine di chi annaspa nella ricerca della propria strada – ricerca così urgente nell’adolescenza – ma la resa e l’adeguamento per quieto vivere a una direzione decisa da altri. In “diritta via” sentivo i rimbrotti e le raccomandazioni del mondo adulto, mondo che non sentivo mio e di cui non volevo fare parte, volontà da cui conseguirono scelte spericolate e non conformi: dai diciassette anni in poi sono stato di fatto un deviante, un fuoriuscito dalla “diritta via”. La mia lunga e drammatica storia con le droghe pesanti mi ha collocato fuori delle mappe del “bene” tracciate dalle morali borghesi, cattoliche e anche comuniste (alla fine degli anni Settanta l’eroinomane era considerato dai compagni un buono a nulla, un disertore dalla lotta continua, una persona da guardare più con disprezzo che compassione).

La mia repulsione per la parola “devianza” risale ad allora, alla convinzione che le mie scelte non scaturivano da uno smarrimento ma dal dubbio lucido e legittimo che esistessero rette vie in assoluto perché ciascuno, a cominciare da me, doveva cercare e insieme costruire la propria, con tutti gli imprevisti, le difficoltà e anche gli errori del caso. Incognite che non dovevano però spaventarmi visto il valore della posta in gioco: la mia autenticità, il realizzare una vita che mi somigliasse, autenticità senza la quale la mia vita non sarebbe stata davvero libera. Lo scopo era dunque giusto – arrivo a dire lungimirante – ma i mezzi per realizzarlo innegabilmente sbagliati: le droghe sono portentose scorciatoie che scelgono la strada al posto tuo portandoti in luoghi paradisiaci che sembravano aspettare solo te, finché un giorno ti rendi conto di essere entrato in un labirinto – altro che “selva oscura” – da cui è impossibile uscire e dove ti attende, insaziabile, il Minotauro.

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La “devianza giovanile”

Si può immaginare, allora, che effetto mi abbia provocato il cosiddetto dibattito scaturito durante la campagna elettorale dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, sulle devianze giovanili. Dibattito che ha rivelato la sconsolante pochezza umana e culturale non solo sua e degli altri politici intervenuti, ma anche dei cosiddetti esperti interpellati sulla questione. Non uno che abbia infatti rilevato come il problema stia, prima che nella cosa, nella parola stessa, ossia nell’indecenza dell’usare ancora una parola come “devianza” per designare alcuni comportamenti giovanili, siano essi di natura patologica (quindi da guardare con compassionevole indulgenza) o provocati dal bisogno immaturo di trasgredire per attirare attenzione (fattispecie che richiederebbe, oltre che comprensione, pene rieducative).

Nessuno che abbia detto che devianza è parola da abolire senza ritegno perché l’idea di una “diritta via” al di sopra di tutto e tutti ha cominciato a scricchiolare già a metà del Cinquecento con la visione copernicana dell’Universo per poi cadere sotto i micidiali colpi delle visioni eretiche e luminose di Giordano Bruno, di Baruch Spinoza, di Friedrich Nietzsche, il primo a smascherare il carattere intrinsecamente impositivo di ogni morale del bene e della rettitudine, di ogni verità rivelata e non infinitamente cercata, il primo a dare voce alla bellezza informe e mai uniforme della vita in quanto tale, al di là del bene e del male.

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Contro lo status symbol dell’individualismo

Nessuno che abbia detto che i cosiddetti devianti, al netto dei loro comportamenti, sono persone semplicemente alla ricerca della propria diversità in una società in cui la maggior parte degli individui si lascia sedurre dai modi suadenti del mercato, che ci vorrebbe tutti docili impiegati della gigantesca macchina del profitto, insaziabili consumatori degli oggetti che il “mercato” offre come status symbol dell’individualismo di massa. Nessuno che abbia detto che le cosiddette devianze sono resistenze all’omologazione da parte di giovani ribelli molto più sani di coloro che li giudicano trasgressori da condannare o malati da compatire. Sicché quella che ci si ostina a chiamare devianza è solo un indicatore di quanto, nell’epoca della economia di mercato, l’alienazione e la spersonalizzazione abbiano toccato livelli insopportabili.

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Il coraggio di guardarsi

Ora, che tale incapacità di vedere e capire trovi ospitalità nel vuoto desolante della politica non mi sorprende, ma che trovi sponda in certa psicologia e sociologia lo ritengo semplicemente spaventoso, segno di come, salvo eccezioni, quei saperi siano diventati funzionali alle logiche del potere, politico o economico che sia. Del resto quando un sapere perde il coraggio di guardarsi con verità e di constatare l’inevitabile caducità di ogni sua teoria si stacca fatalmente dalla vita reale per diventare una fortezza impenetrabile all’incontro con il diverso e il perturbante. Fortezza carceraria da cui guardare panotticamente la marmaglia circostante oltre le mura, umanità irrimediabilmente deviante perché irriducibile alle “diritte” logiche del potere e delle scienze ad esso asservite. 

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