6 novembre 2023
Sembra che essere felici – che è sempre stata una finalità della vita umana – sia diventato una specie di traguardo da conquistare, una possibilità tutto sommato di facile realizzazione: basta che si seguano certi consigli, un qualche metodo, magari un corso ad hoc, oppure qualcosa di acquisibile come una prestazione e addirittura acquistabile come una merce. Insomma, come ogni altra qualità, condizione, anche l’aspirazione suprema della felicità nel nostro mondo è sul mercato. Ma è la stessa ideologia del mercato universale e onnidimensionale a chiamare verso l’infinito dei possibili: il comandamento sostitutivo di ogni comandamento è desiderare senza limiti, l’avere come unica regola non avere regole, come dice una delle pubblicità più diffuse a livello internazionale, o "il futuro non ha limiti", come è scritto su una maglietta per ragazze, forse in polemica contro la protesta ambientalista dello slogan no future.
Oggi la legge del capitalismo non può e non vuole porre limiti alla ricerca della soddisfazione, anzi la incentiva
Da decenni cerco di introdurre un neologismo, certo sgraziato, licitazionismo, per dire che in questa prospettiva di mondo tutto è lecito, secondo l’involontaria profezia di Dante nel Canto Quinto de L’inferno quando scrive che Semiramide, regina lussuriosa, fece di ciò che è libito (desiderato), ciò che designa il licito, ciò che è lecito "in sua legge", nel diritto del suo regno. Oggi la legge del mercato capitalistico, giunto alla globalità delle sue diverse e combinate dimensioni, non deve, non può e non vuole porre alcun limite alla profusione e alla spasmodica ricerca della soddisfazione di qualsiasi desiderio, anzi la deve incentivare ricreando continuamente desideri e creandone sempre di nuovi.
L’equivoco che spesso si produce intorno alla parola felicità è quello, antinaturale e antistorico, di un perpetuo godimento. Dovremmo essere più realisti – e insieme molto più utopisti, perché andremmo contro la corrente stradominante nella nostra epoca – e autoeducarci per educare a una sobria accettazione del vivere e del morire, unita a un impegno di tenace trasformazione di ciò che è trasformabile, cioè delle condizioni socio-storiche e culturali nelle quali viviamo noi stessi e i nostri conspecifici. In assonanza con le parole di Cristina Campo nel testo Gli imperdonabili: "Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore […] una briosa, gentile imperturbabilità all’altrui violenza e bassezza […] fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per il più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzitutto interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto".
Felicità è fare di se stessi fiamma, sostiene Fabio Anibaldi Cantelli
Se, come siamo ormai abituati a fare, cercassimo di rendere eudaimonia, il termine greco per felicità, con fioritura, avvicineremmo la pazienza filosofica junghiana alla felicità antica: "Lo scopo principale della psicoterapia non è quello di portare il paziente a un impossibile stato di felicità, bensì di insegnargli a raggiungere stabilità e pazienza filosofica nel sopportare il dolore. Il compimento e la pienezza della vita richiedono equilibrio tra dolore e gioia; essendo il dolore sgradevole, è naturale tuttavia che si preferisca non misurare mai a quanti timori e affanni sia destinato l’uomo" (Psicoterapia e concezione del mondo, 1943).
Interessante questa citazione perché Carl Gustav Jung non voleva in nessun modo essere preso, o confuso, con un filosofo; diceva che i filosofi, almeno quelli accademici del mondo moderno – non gli antichi che cercavano di vivere filosoficamente – non vengono più cercati dalle persone per confrontarsi con loro, o essere da loro consigliati su un problema, perché quello che dicono non è di nessuna utilità per i problemi che si devono affrontare nel corso dell’esistenza.
Jung e Frankl, pur partendo da assunzioni diverse quanto al funzionamento della psiche, concordano tuttavia nel fatto che solo il senso – inteso come orientamento nella vita vissuta – può offrire agli umani la via per tollerare e superare le inevitabili sofferenze e le patologie della psiche.
D’altra parte se la felicità fosse una condizione esistenziale, se dunque, come sembra necessario fare, non la si vuole ridurre a un momentaneo stato di euforica ebbrezza, allora ne segue, anche logicamente, che la felicità deve comprendere non solo il dolore ma ogni evento della vita, per tragico che sia. L’episodio nel quale Francesco di Assisi parla della "perfetta letizia", o "vera letizia", per quanto paradossale possa suonare alle nostre orecchie, da questo punto di vista appare perfettamente logico:
Lo stesso [fra Leonardo] riferì nello stesso luogo che un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria [degli Angeli], chiamò frate Leone e gli disse: "Frate Leone, scrivi". Questi rispose: "Ecco, sono pronto". "Scrivi – disse – quale è la vera letizia". "Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che [sono entrati nell’Ordine] tutti i prelati d’oltralpe, arcivescovi e vescovi, e anche il re di Francia e il re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. Ancora, [si annuncia] che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, e inoltre che io ho ricevuto da Dio tanta grazia che risano gli infermi e faccio molti miracoli; io ti dico: in tutte queste cose non è vera letizia". "Ma quale è la vera letizia?". "Ecco, io torno da Perugia e a notte fonda arrivo qui, ed è tempo d’inverno fangoso e così freddo che all’estremità della tonaca si formano dei dondoli d’acqua fredda congelata, che mi percuotono continuamente le gambe, e da quelle ferite esce il sangue. E io tutto nel fango e nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo che ho picchiato e chiamato a lungo, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di andare in giro; non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice e un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io resto ancora davanti alla porta e dico: ’’Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là”. Io ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò inquietato, in questo è vera letizia e vera virtù e la salvezza dell’anima".
[Tratto dalla rivista Credere oggi, n. 201, pag. 93]
La "vera letizia" come attitudine, postura, capace di condurre e sostenere le infinite prove che ogni esistenza inevitabilmente incontra, non può che dover contenere e dare diverso orientamento, saper guardare altrimenti, traguardare il male: solo così può essere "vera" e "perfetta", altrimenti sarà confutata infinite volte dalla sfortuna, dalla disgrazia, dalla violenza, dal misconoscimento, dall’oppressione…
Se Dio, come insegnava Tommaso d’Aquino, è la perfetta felicità e, nello stesso tempo, è vicino persino più di noi a noi stessi, come per Agostino, ne deve seguire che Dio sa patire con il mondo senza perdere la sua felicità. Per questo ha creato il mondo dell’umano, della via da percorrere nell’esistenza collettiva e individuale, e si è incarnato come umano egli stesso nel simbolo vivo che è Gesù di Nazareth. Come ho più ampiamente scritto ne La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, ne segue che la felicità contemplante e agente non è l’assenza di dolore ma il superamento di ogni dolore, errore ed orrore, nella misericordia.
Il desiderio, alla lettera, accenna a una condizione "senza stelle" oppure a qualcosa che può venire "dalle stelle": in ogni caso è detta così una mancanza che vorremmo potesse essere colmata, un orientamento possibile dato dal cielo stellato o la manifestazione di qualcosa di atteso che proviene dal cielo stellato. Dio può anche essere sentito e pensato come il desiderio elevato alla sua ultima potenza che "scende dalle stelle" per visitarci o, persino, per abitare tra noi. Una figura simbolica del compimento del desiderio infinito e l’architrave di ogni senso che dà e sostiene la possibilità del nostro orientamento. Possiamo comunque esercitarci a sentirci e pensarci in relazione con il cosmo che abitiamo e, quindi, con l’autopercezione del nostro posto nel mondo. Perché proprio questo metterci in situazione può aiutare a percepirci nelle nostre reali dimensioni e, quindi, ad abitare la relazione tra l’infinità e la misura dei nostri desideri. Nella filosofia antica greco-romana – riprendendo qui la lezione di Pierre Hadot – l’esercizio dello sguardo dall’alto e quello dell’espansione nel cosmo portano a percepire- sentire-pensare di essere un quasi nulla nell’immenso. E proprio questo smarrimento può aiutare a trascenderci, ad andare al di là di noi, del nostro autocentramento egoico, per sentirci-saperci parte della natura, in rapporto inscindibile con gli altri, in ricerca di una verità che sia capace di riconoscere questa realtà di interintradipendenza con tutto e tutti.
Questa immersione in ciò che ci costituisce esteriormente e interiormente, questo riconoscimento del nostro esserne parte, è l’aspetto comprensibile a tutti di ciò che da tempi immemorabili l’unione mistica con il tutto ha sperimentato, ma è anche, insieme, la speranza di una liberazione universale che, nel futuro, sia memoria e riscatto per gli infiniti misconosciuti, oppressi, sfruttati, feriti e uccisi dalla violenza della passione appropriativa contro fratelli e sorelle della comune umanità e contro la nostra casa comune, la terra.
Da lavialibera n° 23, Cosa è la felicità?
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