Disabilità: cercare la felicità anche se non è facile

Mio fratello era Down e mio figlio Edoardo ha un forte ritardo psicomotorio, ma ciò non ha impedito a me e a mia moglie di goderci appieno la vita. Per nostro figlio siamo diventati genitori "manovali di felicità". Per questo per noi questa sensazione fa rima con Dodò

Toni Mira

Toni MiraGiornalista e componente del comitato scientifico de lavialibera

6 novembre 2023

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"Infelici", una parola che fa correre la mia memoria al 6 marzo 1962, quando nacque mio fratello Paolo, persona Down, "mongoloide", come si diceva allora con una parola terribile, definitiva. Disabile, anzi handicappato, e quindi infelice. Lui e la sua famiglia, cioè noi. Così si pensava e si diceva. Ricordo che mamma respingeva con forza queste definizioni, così come il pietoso "poverino!", o quella frase che ancora sento: "Questa sofferenza vi fa essere più vicini a Dio". Già, quasi fortunati, privilegiati. Ma Dio non vuole né privilegia la sofferenza. La sofferenza, l’infelicità le creiamo, le provochiamo noi.

Quando mi arrabbio con Dio

Io sono felice di aver avuto questo fratello, così come lui era felice della sua vita, piena di attività grazie a mamma che non si era fermata

Paolo, Paoletto, ci ha lasciati lo scorso 11 marzo, sorridente e ironico malgrado gli ultimi mesi di sofferenza. E io sono felice di aver avuto questo fratello, così come lui era felice della sua vita, piena di attività grazie a mamma che non si era fermata davanti a quelle parole. Felicità e disabilità, malgrado la disabilità, forse ancor più forte e vera proprio grazie alla disabilità.

Ci penso spesso la sera quando accarezzo mio figlio Edoardo, Dodò, addormentato nel suo letto, accanto al nostro lettone. Dodò non è un bimbo, ma un eterno bambino, disabile grave, con un forte ritardo psicomotorio, 31 anni, con un fisico da adolescente e il cervello ancor più limitato. E già, la disabilità con me ha fatto il bis. Ma anche con Dodò non ha vinto l’infelicità.

Certo, mentre lo accarezzo penso sempre come sarebbe bello se potessi passargli, con un colpo di bacchetta magica, una parte delle mie capacità. Come sarebbe stata diversa la vita mia e di mia moglie Romana, se Dodò fosse stato "normale". Non un altro, perché non lo cambierei con nessuno. Tutto facile e sdolcinato? No.

La felicità è il diritto alla diversità, sostiene l'attivista Sara Lemlem

Grazie a Dodò forse ho capito la vera, profonda, intensa felicità. Piccole cose che diventano gigantesche

Tante volte ne ho parlato col mio amico e compagno di strada don Luigi Ciotti. Gli ho chiesto, a lui che ha incontrato e incontra ancora tanto dolore, se è giusto che qualche volta mi arrabbi con Dio, per qualche difficoltà che nella nostra vita appesantisce il nostro già pesante carico. Come quando Dodò, scivolando su poca acqua caduta sul pavimento, si è fratturato il femore. Allora come altre volte don Luigi, oltre a esserci vicino, mi ha risposto che ho diritto ad arrabbiarmi. E io mi arrabbio, ma poi allontano la tristezza e soprattutto non penso mai all’infelicità.

Anzi grazie a Dodò forse ho capito la vera, profonda, intensa felicità. Piccole cose che diventano gigantesche. Dodò che impara a sedersi, che fa il primo "ciao" con la mano, che pronuncia i primi monosillabi e bisillabi (non è andato molto oltre...), che mangia da solo. Basta vederlo felice e sorridente davanti alla sua tazza di latte e cioccolato e ai biscotti (per lui "Gheghè" e "Bi"), o al formaggio, il suo cibo preferito ("Momò"). O quando mi vede arrivare dopo giorni di assenza: una raffica di baci fragorosi, e poi "Papà, papà, papà", con l’aria sorpresa e felice. Felice lui e felici gli altri tre fratelli che lo coccolano, spupazzano, passandoselo l’uno all’altro come il "cocco" della casa. Per questo io e Romana abbiamo voluto altri due figli dopo di lui, una famiglia numerosa, piena, caciarona, adatta alla sua vita.

Diritti a ostacoli

Non accettiamo per nostro figlio la definizione di "diversamente abile". Un comodo alibi "politicamente corretto", come dire "tanto vostro figlio è solo diversamente abile". No grazie

Una famiglia felice? Noi scout (lo siamo io, Romana e gli altri figli) diciamo proprio che i nostri gruppi sono "una famiglia felice". Noi proviamo a esserlo. Insieme. Spesso a fatica. Alcune volte per stanchezza o quando si sommano problemi come durante la pandemia. Molte più volte per cause esterne. Di chi rende ancor più difficile la nostra vita difficile. Che non è quella della famiglia del mulino bianco. Lo sappiamo bene, lo abbiamo imparato, che la nostra vita, più di altre, è piena di salite, buche, curve improvvise e impreviste.

Ma c’è anche chi ci costruisce assurdi ostacoli. Come una burocrazia ottusa che ti fa pesare la sua esistenza, che non riconosce o nasconde i tuoi diritti. Costringendoci a studiare, approfondire leggi, circolari, ordinanze. O, addirittura, a instaurare prassi disconosciute. Quante lotte, quante litigate, per far valere i diritti di Dodò e non accontentarsi delle briciole che spesso le istituzioni concedono ai disabili, invece di una fragrante e calda pagnotta. Calda di comprensione, ascolto, attenzione e, sì, anche amore. Vivere e non sopravvivere, provando a costruire la sua e la nostra felicità. Invece sospetti, pignolerie, inefficienze. Basta poco per smontare i mattoni della nostra faticosa felicità. Ma noi, cocciuti, li rimettiamo a posto. Manovali della felicità.

Ci aiuta il sorriso di Dodò, la sua mano che cerca la nostra, anche quando per affetto graffia e morde, come un cucciolo. Una felicità che si accompagna al realismo. Per questo noi, come tanti altri genitori, non accettiamo per nostro figlio la definizione di "diversamente abile". Un comodo alibi "politicamente corretto", come dire "tanto vostro figlio è solo diversamente abile". No grazie. Non sono le parole, le etichette a rafforzare la nostra felicità. E poi abili in cosa? Dodò è molto abile ad arraffare il cibo (è golosamente furbo), a impossessarsi delle mollette per capelli di Romana con le quali gioca per ore. Ma sempre disabile è. Il nostro "brutto anatroccolo" (ma Dodò è molto bello…) non si trasformerà mai in un "candido cigno". Lo sappiamo bene.

Una vita a-normale

Felicità è davvero altro. È un cammino che per noi è cominciato più di 30 anni fa, quando i dottori ci hanno annunciato che la nostra vita con Dodò non sarebbe mai stata normale. Noi da allora proviamo ogni giorno a renderla invece a-normale, col trattino. Sempre più normale ma coscienti di quella a. Questo ci permette di godere di tante piccole cose, magari raggiunte con fatiche e con lotte. Per costruire ogni giorno la nostra felicità, diversa ma uguale a tante altre. Anche se sull’altro piatto della bilancia ci sono tante rinunce. Alcune pesano, per altre siamo ormai vaccinati. Basta accontentarsi, ma non per stare fermi.

Quando andiamo a spasso (anche se Roma non è una città a misura di disabile), Dodò vuole che gli canti alcune canzoni, come quelle del Re leone o della Spada nella roccia o le filastrocche che mi cantava mio papà. È esigente ma è un pigro furbetto, e allora io pretendo che mi dica, a modo suo, quale canzone vuole. Mi piacerebbe molto in queste passeggiate poter dialogare con lui, come fanno padri e figli, ma è solo un sogno.

Per fortuna la tristezza se ne va quando lo vedo sorridere dopo aver riconosciuto le sue canzoni preferite. È felice e io con lui. Certo a me e Romana piacerebbe alcune volte sentirci dire "rilassatevi un po’, prendete qualche giorno di vacanza che a Dodò pensiamo noi". Qualche volta, molto poco, è successo, ma ogni volta partiamo pensando sempre a lui. Perché la nostra è e sarà sempre una vita con Dodò, e per questo ci preoccupa il "dopo di noi". Un tema che non incrina la felicità, ma sicuramente la nostra serenità. Così stiamo preparando per lui un futuro, sempre pieno, completo e soprattutto felice. Perché, l’avrete capito, per me e Romana felicità è sinonimo di Dodò.

Da lavialibera n° 23, Cosa è la felicità?


Le immagini del dossier del numero 23 vedono protagonisti 32 giovani che hanno sconfitto gravi malattie. Sono opera di Attilio Rossetti e pubblicate nel volume "Nati per vivere. Il paradiso può attendere" (Contrasto, 2014). "Ho visto la bellezza della guarigione e le ferite nascoste di un cammino duro – scrive Rossetti –. Non ho obbligato nessuno a sorridere. Ho chiesto semplicemente a questi ragazzi e ragazze di indicarmi un luogo per loro significativo, che avrebbe aiutato gli altri a capire chi sono, cosa sono diventati oggi. Questo libro mi ha saziato, ho incontrato la sofferenza più atroce e la metamorfosi della guarigione riflesse nello sguardo di tenerezza delle mamme e dei papà. Questo libro non appartiene ai protagonisti, ma a tutti i giovani che precocemente incontrano la sofferenza e che con le loro famiglie sono messi a dura prova: allora la speranza non è più una virtù ma un obbligo".

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