Foto di Jon Tyson/Unsplash
Foto di Jon Tyson/Unsplash

Uso selettivo dell'anagrafe: negare la residenza per negare i diritti

Nelle città italiane esistono indirizzi virtuali per i senza fissa dimora e per chi vive in luoghi non a norma. Negli ultimi anni le istituzioni locali e nazionali hanno abusato della residenza fittizia, contribuendo all'esclusione sociale di migliaia di persone

Livio Santoro

Livio SantoroScrittore

16 febbraio 2023

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A Roma, se sui tuoi documenti c’è scritto che abiti in via Modesta Valenti vuol dire che la tua residenza è fittizia, virtuale. Significa cioè che non hai una casa in cui vivere regolarmente, e che rientri nella categoria dei “senza fissa dimora”. L’odonomastica ricorda un brutto evento luttuoso: la strada, che esiste solo sulla carta e non nella pianta cittadina, è intitolata a una donna triestina morta nel gennaio del 1983 dopo l’ennesima notte passata all’addiaccio nei pressi della stazione Termini, rifiutata, perché troppo sporca, dall’ambulanza chiamata a soccorrerla. Come Roma, anche le altre città hanno una strada per le residenze fittizie: a Bologna c’è per esempio via Mariano Tuccella e a Napoli via Alfredo Renzi (intitolate anch’esse a senza fissa dimora morti in tragiche circostanze), mentre a Torino c’è via della Casa Comunale, nome che ricorre in molte altre città (per un elenco completo, si veda la tabella curata da fio.PSD).

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Un indirizzo condiviso

Adottato a partire dalla Circolare Istat 29 del 1992, l’istituto della residenza fittizia integra quanto stabilito dalla legge n. 1228 del 24 dicembre 1954: i Comuni sono tenuti a includere tutta la popolazione residente nei propri registri dell’anagrafe, compresi coloro che non hanno un alloggio da eleggere a dimora ma che domiciliano abitualmente nel territorio dell’amministrazione. Va da sé che la residenza fittizia, pur offrendo un riparo emergenziale di ordine burocratico a chi non ne ha uno di ordine fisico, e pur essendo necessaria in vista di una prima emancipazione delle persone da stati di esclusione (dato che la residenza è indispensabile per il godimento di un esteso set di diritti di cittadinanza), resta una condizione stigmatizzante che di fatto viene estesa anche ad altre categorie di persone che un luogo in cui abitare ce l’hanno, per quanto non conforme alla norma stabilita.

Sono molti i provvedimenti nazionali e locali che pongono restrizioni all’accesso alla residenza, spingendo le persone verso quella fittizia o addirittura negandola in toto

Oggi, infatti, sono costretti a richiedere la residenza fittizia non solo i senzatetto, ma anche altre categorie di persone che a vario titolo non rientrano nell’idea contemporanea dell’abitare legittimo. Per esempio: persone che hanno preso in affitto case o stanze con contratti irregolari o in nero; persone che vivono in insediamenti informali o in abitazioni non conformi ad astratte norme di igiene; persone che si trovano in occupazioni a scopo abitativo. In altri termini, dal versante istituzionale emerge la tendenza ad accorpare sotto un’unica categoria, quella appunto dei senza fissa dimora, vari soggetti che in termini logici e pratici senza dimora non sono. Tale accorpamento può essere letto come un’esplicita intenzione di selezionare la cittadinanza, oltre che amministrarla.

Non per tutti

In tal senso, sono molti i provvedimenti nazionali e locali che pongono o hanno posto restrizioni all’accesso alla residenza, spingendo le persone verso quella fittizia o addirittura negandola in toto. Soprattutto a partire dal 2007, quando l’allora sindaco di Cittadella Massimo Bitonci firma quella che da alcuni fu definita “ordinanza anti-sbandati”: nel caso, gli stranieri richiedenti residenza nel comune veneto avrebbero dovuto dimostrare di guadagnare almeno 5mila euro all’anno e di vivere in una casa in condizioni di salubrità e decoro.

 

A questa ordinanza ne sono seguite molte su tutto il territorio nazionale, anche grazie al supporto offerto dal decreto sicurezza firmato nel 2008 dall’allora ministro Roberto Maroni, che introduceva nell’ordinamento italiano la nozione giuridica di “sicurezza urbana”, ampliando la dotazione di potere dei sindaci al di là delle situazioni emergenziali (la Corte Costituzionale sancirà poi, nel 2011, l’illegittimità della norma). Altre importanti tappe di questa storia sono il cosiddetto decreto Renzi-Lupi del 2014 (il Piano casa, ben analizzato nel rapporto del 2022 Dalla strada alla casa, a cura dall’Associazione Nonna Roma), il quale all’articolo 5 stabilisce che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza [in quell’immobile] né l’allacciamento a pubblici servizi”, e il decreto sicurezza del 2018 del ministro Matteo Salvini, con il quale si negava ai richiedenti asilo il diritto di iscrizione anagrafica nei comuni italiani (tale negazione verrà poi cancellata nel 2019, con la ministra Luciana Lamorgese agli Interni).

Libertà limitata

La regolamentazione restrittiva dell’accesso alla residenza e il dirottamento di varie categorie di persone alla residenza fittizia divengono allora dei veri e propri supporti alla stigmatizzazione e all’esclusione sociale, dispositivi che tramite gli uffici dell’anagrafe decidono chi può accedere ai diritti spettanti agli individui e chi no. È grossomodo questo che sostiene il sociologo Enrico Gargiulo nel suo agile libro di recente pubblicato per Eris edizioni (Senza) residenza. L’anagrafe tra selezione e controllo, alla cui base c’è questo assunto: “L’anagrafe non è un ‘banale’ strumento tecnico ma un dispositivo intrinsecamente politico, capace di incidere profondamente sulla realtà sociale”.

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Andando a ritroso nel delineare il ruolo dell’anagrafe nella storia italiana, Gargiulo ricostruisce per grandi linee il tragitto politico-amministrativo cha ha portato alla definizione e al consolidamento dell’istituto della residenza nell’età contemporanea, quando il progetto di convivenza basato sul diritto cui tuttora apparteniamo ha avuto in prima battuta bisogno, per concretizzarsi e rendersi stabile, di una serie di accorgimenti che permettessero da una parte di gestire con efficacia ed efficienza le prestazioni di previdenza sociale, e dall’altra di disciplinare in maniera convincente, o quantomeno economica, le persone, accompagnando così il processo di urbanizzazione e di trasferimento dalle campagne alla città.

Esigenza principale nella gestione di tale progetto è stata la graduale imposizione di un sistema di regole che limitasse le libertà di movimento: la città moderna necessita infatti del lavoro stanziale, e il lavoro stanziale necessita a sua volta che le persone si muovano il meno possibile, occupando disciplinate il posto previsto per loro. “L’obbligo alla residenzialità”, scrive Gargiulo, “è parte di un progetto […] ampio di società, in cui l’indolenza è bandita e le attività lavorative sono sedentarie”.

La questione della residenza ha fatto da aggregatore per attori collettivi che in parte hanno recuperato le istanze movimentiste degli anni ‘50 del Novecento

Nella sua disamina per ricostruire il ruolo assunto nel tempo dalla residenza, l’autore arriva così ai giorni nostri: a partire dagli anni Settanta fino ai primi anni Duemila, la vediamo diventare una vera e propria conditio sine qua non per l’ottenimento di una serie di diritti che il nostro ordinamento è chiamato a garantire, ovvero la scuola, il lavoro, il voto, l’assistenza sociale e la salute, ma anche l’accesso all’edilizia pubblica e a misure economiche di sostegno al reddito. E proprio l’anagrafe sembra diventare il centro regolatore di tali diritti: è lì che si viene registrati, e si accede ai suddetti diritti soltanto se lo si è. Chi sfugge all’anagrafe sfugge al sistema dei diritti. E se oggi questo è vero per chi è nato e nasce in Italia, lo è ancor di più per chi viene da fuori: “Sia per chi ha la cittadinanza sia per chi non ce l’ha, la residenza diventa […] il canale obbligato di accesso ai benefici e ai servizi di cui si è titolari: è una forma di appartenenza territoriale formalizzata a livello municipale. In altre parole, è una sorta di cittadinanza locale, che costituisce un diritto a esercitare altri diritti. La sua negazione […] provoca conseguenze enormi sulla vita delle persone, […] soprattutto di quelle non italiane”.

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In tal senso, sottolinea Gargiulo, la negazione della residenza appare come una strategia istituzionale per selezionare la cittadinanza depositaria di diritti. Come dimostrato dalla sfilza di provvedimenti in materia (tra cui quelli sopra citati), si può sostenere che esista un vero e proprio uso selettivo dell’anagrafe per definire confini tra categorie di persone. Tale “uso selettivo […] esprime una performatività esplicita e consapevole, orientata a marcare una linea simbolica che separa le persone residenti ‘legittime’ dalle persone abitanti ‘illegittime’, e una materiale, che divide chi può esercitare i propri diritti […] da chi non è nelle condizioni di farlo”.

Il diritto alla città

Gargiulo evidenzia così le contraddizioni della legislazione in materia e le pratiche illegali o al limite della legalità operate da chi è chiamato a gestire la questione della casa, e allo stesso tempo riporta i pareri di chi, dal lato internazionale (per esempio l’Ocse) e dal lato locale (le associazioni del territorio), opera affinché venga trovata una soluzione reale, non punitiva né discriminatoria, che ponga fine alla lotta per la residenza e la casa. A questo proposito, in conclusione del testo Gargiulo nota come la questione della residenza abbia negli ultimi anni contribuito a portare alla politicizzazione di un ampio spettro di soggetti, facendo da aggregatore per attori collettivi che in parte hanno recuperato le istanze movimentiste degli anni Cinquanta del Novecento. “Negli anni – scrive Gargiulo – la lotta per l’iscrizione anagrafica si è intrecciata con le rivendicazioni per la libertà di movimento ed è entrata a far parte di una più ampia mobilitazione per il diritto alla città”.

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Anche grazie alle pressioni esercitate da questi attori, si è potuto assistere all’apertura di alcuni spiragli nella rigidità della legislazione nazionale: è per esempio il caso della deroga all’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi decisa nel 2022 dal sindaco di Roma. L’auspicio, quello di Gargiulo e il nostro, è allora che dal lato istituzionale si cancellino le restrizioni nell’accesso alla residenza, come atto necessario in un momento in cui la questione dell’abitare rappresenta ancora (e forse più di prima) un problema di certo non secondario da affrontare.

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