10 novembre 2023
Un tempo si chiamavano Romito. Quel cognome è stato sostituito da altri: Lombardi, Scirpoli, Raduano, Ricucci e La Torre. Sono queste le famiglie della criminalità organizzata che oggi detengono il potere a Manfredonia, in provincia di Foggia, e gestiscono gli affari illeciti del territorio. Una mafia che da Manfredonia si estende lungo la costa fino a Mattinata e Vieste ed arriva anche nelle zone più interne del promontorio del Gargano.
“La lotta alle mafie e alla corruzione non può essere opera di qualche singolo e neppure un’attività delegata esclusivamente alle forze dell’ordine ed alla magistratura: solo insieme possiamo costruire un Paese più gentile, più giusto, più equo e solidale"Federica Bianchi - Referente provinciale di Libera
A Manfredonia la mafia c’è. C’è stata in passato e c’è anche oggi. Ma in città non se ne parla. Non se ne vuole parlare a voce alta. Paura? Rassegnazione? Poca consapevolezza? Forse tutti e tre. Negli ultimi mesi “Libera. Associazioni nomi e numeri contro le mafie”, insieme alla diocesi di Manfredonia, sta cercando di svegliare la città dal torpore in cui sembra essere caduta. Nei giorni scorsi è nato il primo presidio cittadino di Libera, un presidio scolastico dedicato alla memoria di Caterina Ciavarrella, la bambina di 5 anni uccisa il 28 marzo del 1981, a San Nicandro Garganico, con i genitori e altri due fratelli. I loro corpi non sono mai stati trovati. E lo farà soprattutto sabato mattina con la mobilitazione provinciale "Liberiamo Manfredonia" che si snoderà tra le vie del centro sipontino e che vedrà la presenza, tra gli altri, anche di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, e padre Franco Moscone, vescovo di Manfredonia.
Una mobilitazione per chiedere alla città, ai manfredoniani di reagire. “La lotta alle mafie e alla corruzione – spiega Federica Bianchi, referente provinciale di Libera – non può essere opera di qualche singolo e neppure un’attività delegata esclusivamente alle forze dell’ordine ed alla magistratura: solo insieme possiamo costruire un Paese più gentile, più giusto, più equo e solidale. La mobilitazione dell’11 novembre serve per dirci che, questa mafia, così capace di infiltrarsi nell’economia sana della città mette un freno allo sviluppo sia economico, sia civile. Serve anche a vincere la convinzione di non poter cambiare le cose, provando a costruire insieme percorsi duraturi di conoscenza e impegno che generino proposte ed azioni”.
Le mafie foggiane oltre il negazionismo
Manfredonia, la città fondata da Manfredi, figlio dell’imperatore Federico II, con i suoi 53mila abitanti è una città ricca sia economicamente ma anche dal punto di vista culturale e storico. È la città in cui, il 31 luglio del 1997, fu avviato e poi firmato presso la presidenza del consiglio dei ministri, nel 1998, il Contratto d’Area che doveva rappresentare il miracolo industriale per quella zona anche dopo la chiusura del petrolchimico Enichem che, in vent’anni, dal 1969 al 1988, aveva devastato l’intera piana di Macchia, a pochi chilometri dal centro sipontino, e causato – stando ad alcuni studi – l’inquinamento dell’aria e del mare, provocando anche numerosi casi di tumore tra la popolazione.
Ma è anche la terra dei Romito, la famiglia mafiosa che negli anni novanta sancì l’alleanza con i cosiddetti “Montanari”, i Li Bergolis di Monte Sant’Angelo. Un’alleanza bruscamente interrotta e trasformatasi in odio quando i Li Bergolis capirono che i Romito era diventati confidenti dei carabinieri. Il 2 dicembre del 2003 si svolse un summit mafioso in una masseria in località Orti Frenti, tra Manfredonia e San Giovanni Rotondo in cui i Romito fecero il doppio gioco: cercarono di far confessare agli ex alleati le loro responsabilità nella commissione di delitti e altri reati di sangue.
Nella masseria erano state, infatti, piazzate cimici: anche se i Li Bergolis non confessarono alcun fatto di sangue dal processo che ne scaturì (Iscaro-Saburo) venne riconosciuta, per la prima volta, la mafiosità per la famiglia di Monte Sant’Angelo.
Una mafia che, pur mantenendo ben salde le proprie radici si è evoluta, come emerge chiaramente dall’inchiesta Omnia Nostra, conclusa in parte a fine ottobre con la condanna di 19 imputati – che avevano scelto il rito abbreviato – con condanne per complessivi 166 anni di reclusione. Tra le 48 persone coinvolte vi era anche Mario Luciano Romito, il boss di Manfredonia ucciso il 9 agosto del 2017 nella strage di San Marco in Lamis. Per la strage, è stato definitivamente condannato all’ergastolo Giovanni Caterino, considerato il basista della strage, anche lui manfredoniano.
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Omicidi, tentato omicidio, associazione mafiosa, estorsioni, traffico di droga, spaccio, rapina, ricettazione, furto detenzioni e possesso di armi tra cui mitra e kalashnikov, minacce e favoreggiamento: i reati, tutti raggravati dal metodo mafioso, contestati a vario titolo agli indagati. L’inchiesta dice che quelle azioni sarebbero state messe a segno per agevolare l’attività del sodalizio “Lombardi-Scirpoli-Raduano” il clan – denominato anche “Lombardi-Ricucci-La Torre” – nato sulle ceneri di quello dei Romito. Cambiano i nomi ma gli interessi restano gli stessi.
Nel porto di Manfredonia i clan controllavano tutto. Gestivano due società rifornite dal più alto numero di pescherecci e loro era il monopolio del commercio di ghiaccio e polistirolo, materiali indispensabili per la conservazione del pescato
Dopo l’omicidio di Mario Luciano Romito le altre famiglie, infatti, si sono organizzate intorno alle figure di Matteo Lombardi, Pasquale Ricucci e Pietro La Torre. Per poi includere anche Marco Raduano, il boss di Vieste – condannato in Omnia Nostra all’ergastolo – evaso in maniera eclatante alcuni mesi fa dal carcere di massima sicurezza di Nuoro. Il sodalizio ha continuato soprattutto a trafficare droga, concentrando il proprio business nella città di Vieste, il cui controllo è diventato centrale.
Ma ha continuato ad investire in altri affari, iniziando anche ad inquinare l’economia legale. In primis, conquistando il dominio del mercato del pesce di Manfredonia. Emblematica la frase intercettata a un esponente di spicco della consorteria mafiosa: “Il mare è nostro – dice –. Il mare è roba nostra” (leggi l'articolo). Secondo l’inchiesta nel porto di Manfredonia i clan controllavano tutto. Gestivano due società rifornite dal più alto numero di pescherecci e loro era il monopolio del commercio di ghiaccio e polistirolo, materiali indispensabili per la conservazione del pescato. Un dominio conquistato in tempi record grazie a imprenditori a servizio del clan e prestanomi.
Mafia garganica, gli affari dei boss: "Il mare è nostro"
Tra i nuovi affari del clan anche i fondi per l’agricoltura messi a disposizione dall’Unione europea ed ottenuti grazie all’accaparramento di terreni e alla fondazione di società agricole fasulle (leggi l'articolo). Una mafia che è stata capace di fare il salto di qualità entrando nel tessuto economico del territorio della città.
Una città il cui consiglio comunale, il 15 ottobre del 2019 è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Oggi, però, Manfredonia è retta nuovamente da commissari prefettizi: a fine ottobre 13 consiglieri comunali hanno protocollato le loro dimissioni facendo di fatto cadere la giunta guidata da Gianni Rotice, diventato sindaco il 22 novembre del 2021.
Dopo diversi anni di buio e di sottovalutazione qualcosa sta cambiando. Scuole, docenti, sacerdoti e molti giovani stanno provando a far emergere la propria voglia di riscatto continuando a tenere accesi i riflettori che, da qualche tempo, Libera e la diocesi di Manfredonia hanno acceso sulla città.
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