Da sinistra, don Gianni Rigoli e il vescovo di Oppido Mamertina Palmi, Giuseppe Alberti, vicino all'auto del parroco data alle fiamme (Foto Diocesi Oppido-Palmi)
Da sinistra, don Gianni Rigoli e il vescovo di Oppido Mamertina Palmi, Giuseppe Alberti, vicino all'auto del parroco data alle fiamme (Foto Diocesi Oppido-Palmi)

Anno 2024: la mafia è ancora violenta. Gravi minacce alla gip di Lecce e a don Rigoli in Calabria

Nuove gravi intimidazioni a Maria Francesca Mariano, giudice del Tribunale di Lecce che ha firmato un'ordinanza contro la Sacra corona unita. In Calabria incendiata l'auto di don Rigoli, che aveva osato contestare i comportamenti di una nota famiglia di Varapodi, nella Piana di Gioia Tauro. Anm e diocesi invitano a star vicini alle persone obiettivo di questi avvertimenti

Toni Mira

Toni MiraGiornalista e componente del comitato scientifico de lavialibera

5 febbraio 2024

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Due gravi e preoccupanti intimidazioni hanno colpito nel fine settimana una giudice e un parroco, in territori lontani, Puglia e Calabria, ma entrambi segnati dalla violenza mafiosa. Un giudice e un sacerdote che hanno fatto solo il loro dovere, non eroi dell’antimafia. A preoccupare è soprattutto il fatto che entrambi sono già stati molto recentemente obiettivo di minacce e violenze.

Nuove minacce alla gip di Lecce

La gip di Lecce, Maria Francesca Mariano, da cinque mesi sotto scorta e della quale abbiamo già scritto, nella notte tra giovedì e venerdì ha trovato davanti alla porta di casa una testa di capretto insanguinata e infilzata con un coltello da macellaio, accompagnata da un biglietto in cui è scritto “Così”. La giudice era finita sotto tutela a fine settembre insieme alla pm della Dda di Lecce, Carmen Ruggiero. Era stata intercettata una lettera uscita dal carcere Borgo San Nicola di Lecce che le minacciava di morte. Minacce, secondo gli investigatori, legate all’operazione Wolf del 17 luglio contro il clan “Lamendola-Cantanna”, facente parte della frangia mesagnese della Sacra corona unita, nel quale la gip aveva emesso 22 misure di custodia cautelare al termine dell’inchiesta condotta dalla pm.

A fine novembre la scorta era stata rafforzata per entrambe dopo che una seconda lettera, sempre contenente minacce di morte, era stata recapitata alla Mariano, ma con analoghi messaggi per la Ruggiero. A preoccupare di più il fatto che fosse scritta col sangue. “Fa parte del nostro lavoro”, si era limitata a dirci tre mesi fa. Aggiungendo però che i mafiosi sembrano reagire ancora di più contro i giudici donna. “Pensano che la donna sia più emotiva, e quindi sia più fragile, meno resistente. Invece la donna non avrà la forza fisica quanto l’uomo, però dal punto di vista della resistenza e della forza interiore non ha eguali. Non teme rivali”.

Ora però è arrivata la terza grave intimidazione, nello stile tipico mafioso, che viene presa molto sul serio. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, convocato immediatamente dal prefetto di Lecce Luca Rotondi, ha stabilito nuove, ulteriori e più severe misure di sicurezza per le due giudici. La gip Mariano, originaria di Galatina, in provincia di Lecce, entrata in magistratura a 24 anni, il più giovane magistrato italiano, è oltretutto un personaggio noto anche per le tante iniziative pubbliche sui temi della legalità, in particolare nelle scuole, e che non ha abbandonato neanche da quando vive sotto scorta.

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L'Anm: "Auspichiamo vicinanza e solidarietà estese"

“Auspichiamo che le colleghe, come tutti i magistrati e gli altri esponenti delle istituzioni impegnati sul versante più esposto del contrasto mafioso, avvertano, e non solo in tali occasioni, la vicinanza e la solidarietà più estese possibili”Associazione nazionale magistrati

Ora questa terza intimidazione preoccupa ancora di più. Così la giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati (il sindacato delle toghe, ndr) esprime “la massima vicinanza alla collega” così come alla pm Carmen Ruggiero, “vittime di minacce da ricollegarsi alla loro attività di contrasto del crimine mafioso che opera in quel territorio”. Ma, aggiunge l’Anm nel comunicato “queste brutali minacce non sortiranno l’effetto di intimidire e far allentare l’azione di contrasto al crimine, rafforzando anzi, in tutti, la convinzione di quanto la magistratura sia essenziale nella tutela dei diritti dell’individuo e della integrità della società tutta”. Per questo, conclude l’Anm, “auspichiamo che le colleghe, come tutti i magistrati e gli altri esponenti delle istituzioni impegnati sul versante più esposto del contrasto mafioso, avvertano, e non solo in tali occasioni, la vicinanza e la solidarietà più estese possibili”.

Un evidente riferimento alle recenti polemiche di esponenti della maggioranza contro le toghe. E la gravità delle nuove minacce è confermata da Cataldo Motta, ex procuratore di Lecce e tra i maggiori esperti di Sacra corona unita. “È un fatto di estrema gravità che non bisogna assolutamente sottovalutare – ha detto al Corriere del Mezzogiorno –. Soprattutto, a mia memoria, un episodio di tal genere ai danni di un magistrato non era mai accaduto qui da noi. Per cui, questo ci deve far riflettere sulla necessità di mantenere sempre la guardia alta, perché, come dico spesso, sotto la cenere ci può essere il fuoco”. Che sta riemergendo dopo anni di relativa calma, senza azioni visibili da parte dei gruppi mafiosi della Scu. Ora però le intimidazioni alle due giudici segnalano che “ci sono probabilmente frange della criminalità che sfuggono a certe regole e assumono atteggiamenti minacciosi, in controtendenza rispetto agli orientamenti delle organizzazioni mafiose strutturate”.

Calabria, don Rigoli ancora nel mirino

“L’incendio dell’auto di don Gianni rappresenta un duro colpo volto a destabilizzare ancora una volta la comunità in un momento in cui dialogo e riconciliazione sembravano costituire la via percorribile di pacifica serenità all’interno della comunità di Varapodio”Don Giuseppe Alberti - Vescovo di Oppido Mamertina-Palmi

Poche ore dopo l’intimidazione a Maria Francesca Mariano, la scena si è ripresentata in Calabria con un nuovo grave atto contro il parroco di Varapodio (comune in provincia di Reggio Calabria), don Gianni Rigoli. Nel tardo pomeriggio di sabato è stata bruciata la sua auto mentre stava celebrando la messa vespertina e le alte fiamme hanno danneggiato anche la canonica dove si trovava una decina di ragazzi che, spaventati dal fuoco, sono dovuti fuggire da una porta secondaria. Lo scorso 15 gennaio don Giovanni era stato aggredito e picchiato da due persone all’uscita della messa nella chiesa parrocchiale del piccolo paese della Piana di Gioia Tauro. Don Giovanni aveva riportato lesioni, in particolare al capo, che avevano reso necessario il ricovero in ospedale.

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L’aggressione è legata all’iniziativa del sacerdote che a Natale, in conseguenza della risalita dei contagi da Covid-19, aveva vietato le condoglianze in chiesa sia in occasione dei funerali, sia per le messe di suffragio. Dopo pochi giorni dall’emissione del divieto, muore in Australia una donna di una nota famiglia di Varapodio. Il fratello, più volte attenzionato dalle forze dell’ordine, chiede di poter far celebrare il 15 gennaio una messa di suffragio. Don Gianni acconsente, ma ricorda solo il suo divieto: all'interno della chiesa non si potrà esprimere il cordoglio alla famiglia della defunta. Tuttavia, poco prima della messa, alcuni familiari e gli addetti dell’agenzia di onoranze funebri entrano in sacrestia per chiedere con insistenza che si possano svolgere le condoglianze nell'edificio religioso. Di fronte a questa scorrettezza, il parroco annuncia che non concelebrerà la funzione.

Malgrado questa chiara presa di posizione, si accorge che alla fine della celebrazione le condoglianze, che lui aveva vietato, vengono svolte lo stesso. Interviene, dice che non devono farlo. E allora scatta la reazione violenta, l’aggressione che lo fa finire all’ospedale per i colpi ricevuti. Le indagini dei carabinieri hanno presto portato all’individuazione dei responsabili dell’aggressione, due cugini, appartenenti a una nota famiglia, uno con precedenti penali.

Evidentemente non è bastato ed è comparso il fuoco, un’azione che contro un sacerdote non si era mai vista nella Piana di Gioia Tauro. La sera stessa dell’attentato a Varapodio si è recato subito il vescovo di Oppido-Palmi, Giuseppe Alberti, da poco più di quattro mesi alla guida della diocesi. Già in occasione dell’aggressione, la domenica successiva, aveva voluto celebrare la messa nella parrocchia di don Giovanni. “Volevamo dare un segno semplice ma chiaro e per certi versi anche forte, ben orientato in modo che non ci siano ambiguità di nessun tipo”, aveva detto. Aggiungendo: “Bisognerà essere molto chiari. La denuncia è necessaria ma non sufficiente. Non basta. Vanno messi dei precisi paletti per fare chiarezza, perché questi fatti non sono né umani né cristiani”.

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E così anche questa volta, dopo il nuovo attentato, ha raggiunto subito il parroco: “Ho voluto andare, portare la mia vicinanza, dare un chiaro segnale”. Ed un forte segnale è la diffusa solidarietà che comincia a coagularsi intorno allo slogan “Io sto con don Gianni”. Istituzioni locali, associazioni, parrocchie, singoli cittadini. E anche questa è una novità, ma positiva. Se ne fa interpreta don Pino De Masi, parroco di Polistena, referente di Libera per la Piana di Gioia Tauro e vice storica del movimento antimafia calabrese. “Questi signori (?) – scrive rivolgendosi agli autori dell’incendio è bene che sappiano che non hanno colpito don Giovanni, ma tutta la chiesa di Oppido Mamertina-Palmi. E tutta la chiesa di Oppido Mamertina-Palmi, guidata dal suo vescovo Giuseppe Alberti, e in tutte le sue componenti unita a lui, reagirà compatta (con buona pace di chi pensa il contrario) continuando ad annunciare, senza paura, il Vangelo di liberazione da ogni schiavitù compresa quella mafiosa ed educando le nuove generazioni ad una cultura alternativa a quella mafiosa”.

La conferma arriva poi con una nota molto forte, pubblicata sia sul sito della Diocesi sia su quello della Conferenza episcopale calabra, con il commento ufficiale del vescovo su quello che definisce “grave atto intimidatorio” e nel quale “esprime la sua condanna senza riserve verso tale atto di violenza”. “L’incendio dell’auto di don Gianni – denuncia – rappresenta un duro colpo volto a destabilizzare ancora una volta la comunità in un momento in cui dialogo e riconciliazione sembravano costituire la via percorribile di pacifica serenità all’interno della comunità di Varapodio”. E conclude sottolineando “l’importanza di affrontare le divergenze attraverso il confronto chiaro e aperto” e invitando “la comunità a unirsi in preghiera e a respingere la violenza, abbracciando i principi fondamentali di rispetto e tolleranza, auspicando che le autorità competenti conducano un’indagine completa sull’evento”. Parole chiare di una Chiesa che non intende tacere chiedendo la collaborazione di tutti.

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