La statua della Madonna di Polsi, all'interno dell'omonimo santuario. Foto di Gino Larosa/Wikimedia Commons
La statua della Madonna di Polsi, all'interno dell'omonimo santuario. Foto di Gino Larosa/Wikimedia Commons

Mafiosi ai riti sacri, in Calabria la Chiesa si oppone: "Le 'ndrine cerchino un altro culto"

Una parte della chiesa calabrese tenta di liberare le feste cristiane dall'interesse mafioso. A partire dal santuario di Polsi, prima luogo di summit e oggi presidiato, alla scelta del vescovo di Vibo Valentia, di verificare i rapporti delle confraternite con 'ndrangheta e massoneria

Francesco Donnici

Francesco DonniciGiornalista

27 dicembre 2023

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“La scelta di appropriarsi di riti e simboli cristiani può essere legata alla tendenza delle famiglie di dare un fondamento spirituale a quello che fanno. Se la ‘ndrangheta si pone come ‘altro Stato’, allora deve avere un’altra religione”. Così don Tonino Saraco, che lo scorso mese di luglio ci ha ricevuto nel suo ufficio all’interno della parrocchia di Ardore, nel cuore della Locride. Nel 2017 monsignor Francesco Oliva, vescovo della diocesi di Locri-Gerace, lo ha voluto come nuovo rettore del santuario di Polsi, uno dei luoghi più mistici della Calabria, e forse anche per questo, almeno fino a circa un decennio fa, centro nevralgico del rapporto perverso tra la smania di potere ‘ndranghetista, la simbologia e le ricorrenze sacre. L'arrivo di don Saraco a Polsi è stato uno degli episodi che ha segnato il cambio di atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti della criminalità mafiosa nella regione. 

I business senza confini della 'ndrangheta

L’operazione trasparenza del vescovo di Vibo Valentia

L’ultimo capitolo, in ordine di tempo, è stato scritto nella provincia di Vibo Valentia sotto forma di decreto inviato ai priori e ai commissari delle confraternite dall’attuale vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, Attilio Nostro. Nel documento, reso noto da Avvenire, è richiesta l’acquisizione, entro 30 giorni, “dell’elenco completo degli iscritti, che deve comprendere nome e cognome del confratello/consorella, luogo e data di nascita, residenza”.

La richiesta, da leggersi in chiave “collaborativa e non punitiva”, permetterà alla Curia di verificare l’eventuale presenza di iscritti che potrebbero avere dei rapporti con ambienti non soltanto affini alla criminalità organizzata di stampo mafioso, ma anche alla massoneria, che nella provincia vibonese è spesso finita sotto la lente degli inquirenti.

La 'ndrangheta nel vibonese, una scelta identitaria

La necessità di maggiore trasparenza che sta alla base della richiesta del vescovo appare più chiara attraverso la rilettura di fatti e inchieste che in passato hanno interessato la provincia. Su tutti, viene citato il rito dell’Affruntata, uno dei momenti più sentiti delle festività pasquali. Nelle piazze gremite del Vibonese, incitati dalla folla, i “portatori” inscenano il simbolico incontro tra la statua del Cristo risorto e quella della vergine Maria, il più delle volte mediato e testimoniato da san Giovanni. Durante la corsa, il priore strappa il velo del lutto dalla statua della Madonna.

Ma questa cerimonia in alcuni paesi della provincia si è prestata anche ad altro. Lo testimoniano le parole del collaboratore di giustizia Rosario Michienzi, noto per essere stato l’autista del commando che insanguinò la piazza di Sant’Onofrio durante la cosiddetta strage dell’Epifania del 1991, che aveva come destinatari alcuni esponenti di vertice del clan Bonavota, egemone sul territorio. “Per noi – ha detto Michienzi ai magistrati – l’Affruntata è l’occasione per nuove affiliazioni. I nuovi picciotti portano in spalla san Giovanni e si inchinano tre volte davanti alla Madonna, portata in spalla dai capibastone”.

“L’Affruntata è l’occasione per nuove affiliazioni. I nuovi picciotti portano in spalla san Giovanni e si inchinano tre volte davanti alla Madonna, portata in spalla dai capibastone”, dice il pentito Rosario Michienzi

L’Affruntata da esportazione: il caso piemontese

L’inquinamento del rito sacro ha finito per interessare anche altri territori lontani dalla Calabria come Carmagnola, piccolo comune poco distante da Torino ed epicentro dell’inchiesta Carminus, coordinata dalla Dda piemontese. A parlare di queste vicende è un altro collaboratore di giustizia, Andrea Mantella, affiliato e vertice dei Lo Bianco di Vibo Valentia, prima di votarsi a un progetto scissionista nel tentativo di affrancarsi dall’egemonia esercitata nella provincia dai Mancuso di Limbadi, proprio grazie al sostegno – almeno iniziale – dei Bonavota.

Roberto Rosso condannato per voto di scambio

Le condanne di secondo grado per i presunti affiliati in Piemonte sono arrivate alla fine dello scorso mese di luglio. Tra queste, figura la pena di 17 anni di reclusione inflitta a uno dei presunti vertici del sodalizio, Salvatore Arone – che assieme a Domenico Cugliari detto “Micu i mela”, contabile dei Bonavota, condannato in primo grado a 22 anni e 6 mesi nel maxi-processo Rinascita-Scott – avrebbe investito in Piemonte, creando una cellula distaccata della locale di Sant’Onofrio. Dalle parole di Mantella contenute negli atti si racconta anche di un comitato presieduto da Arone in “un paesino” dove veniva organizzata l’Affruntata. Il comitato aveva quindi il compito di “organizzare questa festa sotto Pasqua, e dalla Calabria salivano Nicola Bonavota, Pasquale, Domenico per portare la statua”.

Dinamiche più o meno note, che nel 2014 portarono al “commissariamento” dell’Affruntata nei comuni di Sant’Onofrio e Stefanaconi, così da eliminare a monte il rischio dell’eventuale presenza di affiliati alla ‘ndrangheta. Portantini sarebbero stati i volontari della Protezione civile, ma la comunità di Sant’Onofrio in particolare, indignata dalla decisione, chiese alle autorità ecclesiali di cancellare del tutto la processione.

I segni del potere: gli inchini e liste dei “portatori”

Anche la potente famiglia Mancuso, presunto centro della struttura “unitaria” raccontata in Rinascita-Scott, sarebbe coinvolta in simili dinamiche sul territorio di Limbadi, dove molto sentita è la ricorrenza di San Pantaleone a fine luglio. Risale al periodo tra il 2012 e il 2013 la decisione di Luigi Mancuso di iscriversi nella lista dei portantini della statua.

Rinascita-Scott, pene pesanti a boss, lievi ai politici

Un’azione che “creò molto imbarazzo” a detta di Pantaleone Sergi, già sindaco e memoria storica del luogo, specie perché l’iscrizione spesso viene richiesta per “grazia ricevuta”, com’era stato il ritorno in libertà per il presunto vertice della famiglia locale. L’ultima condanna a 30 anni per Mancuso è stata pronunciata il primo dicembre 2023 nel processo Petrolmafie (in virtù dello stralcio della sua posizione processuale dal troncone ordinario di Rinascita-Scott).

Altro caso simile che fece molto discutere, anche grazie alla divulgazione della notizia sul Quotidiano della Calabria, fu quello avvenuto nel luglio 2014 a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, durante la processione della Madonna delle Grazie. Nel piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, all’incrocio tra corso Aspromonte e via Ugo Foscolo, la processione si fermò davanti all’abitazione del boss locale Giuseppe Mazzagatti, all’epoca agli arresti domiciliari, deceduto nel 2021 all’età di 89 anni.

Nel 2014 a Oppido Mamertina, durante la processione della Madonna delle Grazie, il corteo si fermò davanti all’abitazione del boss locale Giuseppe Mazzagatti, all’epoca agli arresti domiciliari

Il gesto non passò inosservato. In particolare, fece scalpore la decisione del maresciallo dei carabinieri, Andrea Marino, di abbandonare la processione – facendo filmare quanto stava accadendo per identificare le persone coinvolte – visto che le direttive che vietavano quelle fermate “straordinarie” erano state disattese. Come testimonieranno alcune inchieste più recenti, quel gesto non andò giù ad altri presunti esponenti della criminalità calabrese.

Si cita in questo senso la rabbia espressa da Domenico Laurendi e Giuseppe Speranza in una intercettazione finita agli atti dell’inchiesta Eyphemos, dove sono entrambi condannati in via non definitiva, contro i clan di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che discutendo sul possibile omicidio del maresciallo, augurano “la camera a gas” a “tutti gli sbirri”.

La scomunica di Papa Francesco

La decisione del vescovo vibonese, in accordo e sinergia con le autorità locali, interviene su un terreno già solcato negli anni e in linea di continuità con il volume No ad ogni forma di mafie! divulgato nel 2021 dalla Conferenza episcopale calabra (Cec). “Nei nostri territori – si legge nelle linee guida – [le mafie] cercano ancora d’imporre l’irreligione della sopraffazione e del potere criminale, adescando donne e uomini, talvolta intere famiglie, con la sfrontatezza di poter arruolare al male e all’assassinio chiunque, perfino gli stessi ragazzi e adolescenti”. Motivo per cui vengono riportate una serie di “raccomandazioni e norme” contenute nella seconda parte del volume, “a cui attenersi da parte delle Diocesi calabresi nella traduzione locale”, attraverso i tre tradizionali ambiti dell’agire ecclesiale: prossimità agapica, annuncio e celebrazione.

Don Italo Calabrò, pioniere dell'antimafia sociale

“Ci riferiamo – scrivono – soltanto ad alcune situazioni nelle quali continuano, purtroppo, a persistere prassi evidentemente anticristiane e non in linea con quanto esposto nei principi teologico-pastorali”, contenuti nella prima parte del volume. Questa presa di posizione, arrivava a sua volta in continuità con la “scomunica ai mafiosi” pronunciata da Papa Francesco nella Piana di Sibari il 21 giugno 2014.

Il Pontefice si era recato in Calabria all’indomani dell’assassinio del piccolo Cocò Campolongo, ucciso a Cassano all’Ionio con un colpo in testa e dato alle fiamme mentre si trovava nell’auto del nonno, Peppe Iannicelli, che lo portava con sé usandolo come “scudo” per sfuggire a un regolamento di conti con alcuni tra i più sanguinari clan della malavita locale.

Nel 2014 Papa Francesco lanciò dalla Piana di Sibari la scomunica ai mafiosi. Il Pontefice si era recato in Calabria dopo l'assassinio del piccolo Cocò Campolongo, utilizzato come "scudo" dal nonno, Peppe Iannicelli

Il concetto della scomunica è stato ribadito in un documento condiviso dal Papa in occasione del trentennale dall’assassinio, a Palermo, di padre Pino Puglisi. Per attuare la volontà del Pontefice è stato creato un gruppo di lavoro (di “sintesi dialettica”) che annovera tra i membri anche don Luigi Ciotti. "La Chiesa – ha detto il presidente di Libera e del Gruppo Abele – ha fatto passi in avanti nel percorso contro la mafia, ma bisogna fare uno scatto ulteriore. Le organizzazioni mafiose usano la religione come strumento di consenso e di potere. È allora necessario che ci siano pronunciamenti non solo verbali, ma scritti. Per dire in maniera chiara che la Chiesa taglia i ponti con la mafia” e che “c'è già una scomunica di fatto, che entra in vigore a prescindere dalla scomunica de iure”.

La nuova vita del santuario di Polsi

Passi avanti tangibili sono stati compiuti nel territorio di San Luca. “Polsi non è il santuario della ‘ndrangheta”, ha detto a lavialibera don Saraco, nominato rettore per succedere a don Pino Strangio, dimissionario dopo il coinvolgimento nell’inchiesta Gotha, dove è stato condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa.

La storia del santuario della Madonna della Montagna è associata alle dinamiche ‘ndranghetiste, secondo alcuni studiosi, fin dall’ultima decade dell’Ottocento. Lo storico John Dickie, infatti, in un processo del 1894 contro la criminalità di Africo, descrive le tracce dei primi summit dell’onorata società in occasione della festa della Madonna di inizio settembre.

La storia del santuario della Madonna della Montagna,a Polsi, è associata alle dinamiche ‘ndranghetiste, secondo alcuni studiosi, fin dall’ultima decade dell’Ottocento

Così almeno fino a circa un decennio fa, quando le captazioni degli inquirenti dell’inchiesta Crimine permisero anche di filmare alcune riunioni tra le più potenti famiglie di ‘ndrangheta della regione, facendo luce sulla figura di Domenico Oppedisano, illustre sconosciuto alle autorità che nel 2009, proprio su quei luoghi, avrebbe ricevuto l’investitura a capocrimine.

Il paese di San Luca cerca un'immagine diversa

Negli ultimi anni al santuario sono aumentati gli standard di sicurezza. Le aree sono videosorvegliate e agli ospiti viene chiesto di registrarsi, con i dati che vengono poi inviati alla prefettura per i controlli. Intanto, per rinnovare i simboli sacri deturpati dalle attività mafiose, come ha raccontato don Tonino Saraco, anche grazie al supporto della diocesi, vengono organizzate delle iniziative sociali, come ad esempio l'apertura di un birrificio artigianale o la gestione e riqualificazione di spazi e beni confiscati da parte della parrocchia.

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