21 settembre 2022
"‘Ndrangheta, politica, massoneria, servizi deviati […] ormai sono un tutt’uno, bisognerebbe trovare un nuovo nome per associarle". Parola di Seby Vecchio, collaboratore di giustizia dalla fine del 2020. Ex consigliere comunale e assessore della giunta di Giuseppe Scopelliti (nonché suo testimone di nozze), Vecchio è anche ex poliziotto, per sua stessa ammissione "massone “in sonno” iscritto al Goi (Grande oriente d'Italia, ndr)" ed ex ‘ndranghetista, riferimento della cosca Serraino.
Vecchio è stato chiamato a testimoniare al processo Gotha – sui rapporti tra ‘ndrangheta reggina, massoneria e colletti bianchi – e la sua testimonianza serve all’accusa per chiudere il cerchio su decenni di indagini che cercano ancora conferme giudiziarie. L’inchiesta è stata avviata nel 2016 con l’unione di quattro indagini, tra cui Mammasantissima, e riguarda l’esistenza di un’ampia struttura criminale "che supera l’infiltrazione, va oltre il singolo affare e diventa sistema, trasformando la ‘ndrangheta da interlocutore dell’istituzione in istituzione vera e propria".
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Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che coordina il pool impegnato nel processo, nella prima delle tredici udienze dedicate alla requisitoria ha definito una "menzogna" il racconto della mafia fatto fino ad oggi. Per il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, "la ‘ndrangheta non è soltanto un’organizzazione criminale di tipo mafioso con caratteristiche e proiezioni internazionali, addirittura intercontinentali, ma è un ramificato sistema di potere" che ha influenzato, di nuovo nelle parole di Lombardo, "ogni momento significativo della vita politica ed economica" della comunità reggina "da almeno quindici anni".
Sulle panche del processo alla cupola, tra le prime file, siede anche l’avvocato, ex militante neofascista ed ex parlamentare del Partito socialista democratico italiano, Paolo Romeo, principale imputato nel troncone ordinario. Già condannato per concorso esterno nel maxi-processo Olimpia, il “Salvo Lima reggino”, come lo definirono i pentiti Barreca e Lauro, nella ricostruzione dei magistrati è un soggetto appartenente "alla componente apicale, 'segreta o riservata' della ‘ndrangheta". Romeo sarebbe uno degli Invisibili: vertice gerarchico che dal “sopramondo” orienta scelte e attività della ‘ndrangheta militare, la base “visibile”, il “sottomondo”. Non il solo. L’accusa aveva chiamato in causa Giorgio De Stefano, anche lui avvocato e anche lui con una condanna come concorrente esterno passata in giudicato. Cugino di quel Paolo De Stefano restituito dalla prima guerra di ‘ndrangheta come uno dei capi del nuovo corso. I due noti penalisti rappresenterebbero, nelle dichiarazioni dei collaboratori, "l’anello di giunzione tra mafia e politica", persone che "appartengono contemporaneamente alla ‘ndrangheta e alla massoneria". Accuse valse, il 30 luglio 2021, una condanna (di cui si attende il deposito delle motivazioni) a 25 anni in primo grado per Romeo. Per De Stefano la condanna è invece arrivata nei primi due gradi del rito abbreviato, prima dell’annullamento pronunciato dalla Cassazione a marzo 2022.
Nelle parole di Antonino Belnome "la ‘ndrangheta com’era prima, ormai sputtanata" è stata superata dopo il conflitto di metà anni Settanta, lavato col sangue dei vecchi capi Mico Tripodo e ‘Ntoni Macrì. Il processo evolutivo – secondo il collaboratore ed ex boss della locale lombarda di Giussano – interrotto in occasione del blitz al summit di Montalto del 23 ottobre 1969, è stato portato avanti "da coloro che hanno doti eccelse nella ‘ndrangheta". Un "progetto eversivo" che supera il conflitto e si trascina fino ai primi anni Ottanta, favorendo secondo gli inquirenti "l’ascesa dei casati vincenti dei “santisti”, gli stessi che avevano avuto già la possibilità di sperimentare le segrete convergenze nel periodo dei “boia chi molla”", cioè i moti neofascisti a Reggio Calabria nel 1970.
All’indomani della pax mafiosa, "gli equilibri criminali reggini si sono sviluppati in senso unitario e piramidale". La sentenza resa nel primo grado del processo Meta raccontava di una nuova struttura ‘ndranghetista creata "per prevenire ed evitare l’insorgere di conflitti". La procura aveva ipotizzato la nascita di una superassociazione "composta dai vertici delle consorterie più potenti della città".
I fratelli De Stefano sarebbero diventati, nella definizione avanzata dai magistrati reggini, "leader di una vera e propria multinazionale del crimine", entrando in affari anche con Stefano Bontade a Palermo, – come ribadito dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca – Santapaola e Ferrara a Catania e la camorra di Raffaele Cutolo a Napoli. La sentenza individuava nella Santa un "anello di giunzione tra ‘ndrangheta e massoneria". Un aspetto passato al vaglio anche della Commissione antimafia della XIII legislatura, che definisce la "struttura nuova, elitaria, estranea alle tradizionali gerarchie dei locali, in grado di muoversi in maniera spregiudicata" oltre i divieti fissati dal codice della ‘ndrangheta. Gaetano Costa, capo della locale di Messina, nel 1994 intesta a don Mommo Piromalli la nascita di questo nuovo grado disconosciuto dai vecchi boss, che "poteva essere conferito solo a 33 persone". "Poiché Piromalli era notoriamente massone – dice – lo stesso introdusse, o comunque fece conoscere, la regola secondo cui ogni componente la società di Santa poteva entrare a far parte della massoneria".
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Secondo il procuratore Lombardo, tali passaggi vanno riletti attraverso un’altra relazione della Commissione antimafia, risalente a trent’anni fa. Il 4 dicembre 1992 venne audito Leonardo Messina, uno degli ultimi collaboratori di giustizia interrogati da Paolo Borsellino. Nel rispondere alle domande del presidente Luciano Violante, affermava: "Dove c’è la ‘ndrangheta ci siamo noi, dove ci siamo noi c’è la ‘ndrangheta. Siamo una cosa unica". Il richiamo riporterebbe alla Cosa nuova, un "organismo direttivo posto al di sopra delle cosche", che mette in comunicazione le diverse componenti territoriali intese come un tutto unico. Non esisterebbero commissioni locali, ma solo "quella mondiale" e "quella europea". La Cosa unica avrebbe avuto l’obiettivo di diventare "padrona di un’ala dell’Italia" aiutata "dalla massoneria" e da "formazioni politiche nuove", tendenti all’estrema destra, perché, dice Messina, "è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra".
Gli fanno eco le deposizioni, sempre dei primi anni Novanta, di Filippo Barreca, che parla di un "collegamento necessario" coi palermitani per realizzare il "progetto massonico" che doveva passare, "conformemente alle regole della massoneria", dall’accorpamento di tutti i centri di potere.
Stando alla ricostruzione dei pm, la struttura ‘ndranghetista ha assunto nel tempo le sembianze di una clessidra della quale riusciamo a vedere solo la base: la parte bassa dove cade la sabbia. La parte alta è il “sopramondo”, abitato dal nuovo organismo direttivo dei cosiddetti “invisibili”, affiorato nelle parole della sentenza Bellu Lavuru, passata in giudicato nel 2012. A parlare è il “professore” Sebastiano Altomonte, agli occhi del mondo un sindacalista scolastico, poi condannato in via definitiva come uno dei capi delle cosche Vadalà e Talia di Bova Marina. Iscritto alla massoneria, per sua stessa ammissione alla Gran Loggia regolare d’Italia, è molto vicino ad Antonio Pelle “Gambazza”, che per anni aveva ricoperto il ruolo di capo crimine nella “Provincia”. "C’è la visibile e l’invisibile che è nata da un paio d’anni. C’è una che si sa e una che non la sa nessuno". Altomonte dice anche qualcosa in più: la componente visibile della ‘ndrangheta "non conta", perché le decisioni vengono prese dalla direzione strategica.
I giudici riconoscono un possibile spartiacque: l’omicidio del consigliere regionale calabrese Francesco Fortugno, avvenuto a Locri il 16 ottobre 2005. La componente occulta della ‘ndrangheta, sconosciuta anche a gran parte degli affiliati visibili, sarebbe nata dopo quell’accaduto "per una scelta di autoprotezionismo" dagli attacchi esterni dei magistrati e da quelli interni, come risposta al crescente fenomeno del pentitismo. "Se no il mondo finiva – aggiunge – se no tutti cantavano". Della componente riservata farebbero parte "solo in cinque" e comunque un numero non superiore a "sei-sette" persone, secondo Filippo Chirico, intercettato nel 2013 perché vicino alla cosca Libri del quartiere Cannavò di Reggio Calabria, che opererebbero – si legge nella sentenza di secondo grado abbreviato di Gotha – "attraverso moduli organizzativi in tutto simili a quelli tradizionalmente propri delle logge massoniche 'coperte'".
Quella che viene indicata è una metamorfosi che attraversa tutti i mandamenti. Per dimostrarlo, la Corte reggina propone la lettura congiunta con un celebre inciso estratto dagli atti dell’indagine Purgatorio della Dda di Catanzaro. "La ‘ndrangheta non esiste più!...una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, a…c’era la ‘ndrangheta! ...la ‘ndrangheta fa parte della massoneria! […] diciamo…è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose… […]". Le parole risalgono al 7 ottobre 2011 e sono del boss di Limbadi, Pantaleone Mancuso, allora reggente dell’omonima famiglia, parte integrante del mandamento tirrenico, al centro del processo Rinascita-Scott.
Zio “Scarpuni”, così come Altomonte, parla di una modernizzazione resasi necessaria col tempo perché da un certo momento in poi l’organizzazione aveva sentito il bisogno di superare "le vecchie regole". "Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose!...oggi la chiamano “massoneria”…domani la chiamano p4, p6, p9". Bisogna però intendersi quando si parla di massoneria, poiché il riferimento è soprattutto alle logge spurie, a un modello di riferimento. "Le componenti alte (dell’alta ‘ndrangheta, ndr) vivono di logiche massoniche e si ispirano a logiche massoniche – ha detto il procuratore Lombardo durante un incontro a Lamezia Terme, qualche settimana dopo la sentenza Gotha del 2021 –. Le componenti mafiose, infatti, cercano un dialogo con la massoneria perché hanno necessità di interagire con altri ambiti, genericamente indicati in settori ad alta redditività". "Ma è comunque sbagliato – ha aggiunto il magistrato – dire che si arrivi a una completa compenetrazione tra massoneria irregolare e componente massonica delle mafie". In altri termini, "quando le componenti di ‘ndrangheta parlano di massonerie, parlano di logiche massoniche e di rituali ispirati a quelli massonici, […] ma certamente non è mai entrata la massoneria integralmente nel sistema mafioso per governarlo.
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