Don Italo Calabrò insieme ad alcuni giovani calabresi/Archivio Caritas
Don Italo Calabrò insieme ad alcuni giovani calabresi/Archivio Caritas

Don Italo Calabrò, pioniere dell'antimafia sociale

La Chiesa ha avviato il processo di beatificazione del parroco di Reggio Calabria, prete dei poveri, dei fragili e degli ultimi. In prima linea nella lotta alla 'ndrangheta, negli anni Ottanta ha allontanato e salvato decine di giovani dalla violenza delle faide

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

22 settembre 2023

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Lo scorso 10 settembre, dopo un anno di lavori preliminari e il nulla osta della Santa Sede, è cominciato l’iter per la beatificazione di don Italo Calabrò, parroco di San Giovanni di Sambatello (una frazione di Reggio Calabria), uomo di Chiesa e di strada a fianco dei poveri e dei più fragili, pioniere nell’affrontare a viso aperto la ’ndranghetaNelle motivazioni scritte dalla diocesi si legge: “Don Italo fu antesignano nella lotta contro la mafia, ispirando la prima pronuncia in tal senso della Conferenza episcopale calabrese, ma anche assistendo sia i figli delle vittime sia quelli dei mafiosi per distoglierli dalla via criminale sulla quale le loro famiglie li instradavano”.

Don Italo Calabrò
Don Italo Calabrò

Don Italo Calabrò – morto il 16 giugno del 1990, poco prima di compiere 65 anni, per un male incurabile diagnosticato due mesi prima – è stato un precursore: con la forza delle sue parole e delle sue azioni è riuscito ad anticipare progetti che anni dopo, anche grazie ai suoi insegnamenti, si sono realizzati e strutturati. Come nel caso di Liberi di scegliere, protocollo tra istituzioni e Libera che offre supporto alle donne e ai minori che decidono di allontanarsi dai contesti mafiosi.

Liberi di scegliere, un modo diverso di fare antimafia

Ma non solo. Don Italo ha appoggiato la battaglia sull’obiezione di coscienza e, dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia e la chiusura dei manicomi, ha accolto decine di persone con problemi psichici. Inoltre, è stato tra i primi a offrire aiuto agli ammalati di Aids negli anni in cui della sindrome si sapeva poco e tra le persone regnava diffidenza e paura. 

Italo Calabrò nasce a Reggio Calabria il 26 settembre 1925. A 17 anni, conseguita la maturità classica, entra nel seminario diocesano Pio XI di Reggio Calabria, cominciando il suo percorso ecclesiastico. Educatore e insegnante, nel 1964 è nominato parroco di San Giovanni di Sambatello. Tra i cofondatori della Caritas italiana, di cui è stato vicepresidente, fino alla morte ricopre il ruolo di vicario generale dell'arcidiocesi di Reggio. Nel 1968, coinvolgendo un gruppo di studenti dell'istituto tecnico industriale "A. Panella" di Reggio Calabria, dove ha insegnato per oltre un ventennio, avvia nella sua parrocchia la Piccola Opera Papa Giovanni dove accoglie dei giovani disabili. Segue l'avvio di numerose comunità di accoglienza, centri di riabilitazione, gruppi di volontariato, case famiglia per minori in difficoltà e ragazze madri, comunità per persone con disabilità e malattie mentali; servizi per adolescenti con problemi con la giustizia, cooperative di solidarietà sociale per l'inserimento lavorativo di ragazzi emarginati, famiglie aperte all'affidamento e all'adozione. Fermo sostenitore dell'obiezione di coscienza, fin dagli anni Settanta è molto attento al problema dell'ospedale psichiatrico reggino, seguendo dopo l'entrata in vigore della legge Basaglia molto dimessi. In quegli anni avvia con alcuni giovani il Centro comunitario Agape, una comunità aperta ai più poveri. Muore il 16 giugno 1990, poco prima di compiere 65 anni. Le sue spoglie riposano nel piccolo cimitero di San Giovanni di Sambatello.


Operazione salvataggio

Negli anni Ottanta la Calabria visse una stagione di violenza. Mentre imperversavano le faide e ogni giorno si contavano i morti ammazzati, don Italo intuì che l’unica cosa da fare in quel momento era salvare i giovani dal fuoco della vendetta. Senza protocolli o linee guida, in modo quasi "artigianale", sfruttando l’abito talare e talvolta anche il confessionale, il parroco organizzò dei piani di fuga, con i ragazzi che venivano allontanati dalle proprie famiglie e nascosti.

Don Italo ebbe la lucidità di capire che l’unica cosa da fare era salvare i giovani dal fuoco della vendetta. Senza protocolli o linee guida, in modo quasi artigianale

Mario Nasone – che insieme al cugino Domenico Nasone, all’interno dell’associazione Agape, ha vissuto quegli anni – racconta oggi a lavialibera: “La seconda faida di Cittanova aveva già fatto quasi 40 morti quando un giornale calabrese pubblicò il racconto di un’insegnante di Gioia Tauro: diceva che ogni volta che qualcuno apriva la porta dell’aula i ragazzini, poi si saprà appartenenti alla cosca Facchineri, si nascondevano sotto i banchi perché temevano di essere uccisi. Don Italo portò il giornale in associazione e disse che dovevamo fare qualcosa. Tutto iniziò così, in modo abbastanza avventuroso”. 

Mafie senza pietà: bambini vittime delle faide

Fondamentale fu l’apporto del tribunale dei minori di Reggio Calabria, che emanò un provvedimento per allontanare i bambini di Cittanova e affidarli al centro comunitario Agape. “Avevano tutti dai 5 ai 13 anni – ricorda Nasone –. La polizia li prelevò a casa di notte e, nascosti sotto i sedili, li condusse a casa di don Italo. Per un anno i più piccoli vissero con noi a Reggio, mentre i più grandi andarono in case famiglia. Dopo, quando vennero meno le condizioni di sicurezza, li trasferirono tutti al Nord. In aereo, sotto falso nome, giunsero a Torino e quindi, con l’aiuto di don Luigi Ciotti, trovarono ospitalità soprattutto in Umbria e Toscana”.

Il piano andò a buon fine, ma dopo qualche anno la maggior parte di quei giovani tornò in Calabria. “Purtroppo è così – conferma Nasone –, ma in quel momento volevamo salvargli la vita e ci siamo riusciti. Poi c’è stato il ‘richiamo della foresta’ e molti hanno fatto una brutta fine. Pochi si sono salvati, tanti sono morti o finiti in carcere”.

Una voce senza paura

Prima di don Italo nessuno aveva pronunciato in chiesa la parola ’ndrangheta. Le frasi che il parroco lanciava come frecce dal pulpito arrivavano lontano, anche perché era solito utilizzare un microfono così potente che la sua voce dal tono bonario ma risoluto riecheggiava in tutta la vallata, racconta chi l'ha conosciuto. Ad amici e collaboratori non disse mai di essere stato minacciato, ma è verosimile che qualche avvertimento lo ricevette.

Le frasi che il parroco lanciava come frecce dal pulpito arrivavano lontano, anche perché era solito utilizzare un microfono così potente che la sua voce riecheggiava in tutta la vallata

“Abbiamo sempre pensato che non l’abbiano ucciso perché a San Giovanni, proprio a due passi dalla parrocchia, viveva don Mico Tripodo, il capo dei capi, poi assassinato al carcere Poggioreale di Napoli dai cutoliani – spiega Nasone che poi aggiunge –: Il boss aveva messo un veto, anche perché don Italo non si limitava a condannare la mafia, ma seguiva i familiari. Era un grande conoscitore della ‘ndrangheta, sapeva che corde toccare”.

Rosario Livatino, un martire laico

Che per gli uomini di chiesa fossero tempi pericolosi si capisce bene leggendo un articolo del 1990 di Renzo Giacobelli, inviato storico di Famiglia Cristiana“Quattro morti ammazzati, a Reggio Calabria, nei primi dieci giorni del 1990. La guerra tra le bande mafiose reggine, che dal 1986 insanguina la città, non conosce tregua. Anzi, negli ultimi mesi ha alzato il tiro dell’intimidazione contro chi denuncia i crimini e tenta di smuovere le coscienze. È il caso della chiesa di Reggio, non da oggi impegnata contro il ‘cancro’ mafioso. Negli ultimi mesi, cinque preti reggini sono stati ‘avvisati’. A tre di essi è stata bruciata la macchina; due sono stati minacciati telefonicamente. Avvertimenti trasmessi sempre di notte”. Nell’articolo il cronista cita anche don Calabrò, scrivendo che da anni “parla con estrema chiarezza di mafia piccola e grande. Non ha paura”.

È probabile che anche don Italo temesse per la sua vita, ma il ruolo che aveva assunto non ammetteva tentennamenti di alcun tipo. Anzi, ogni volta che se ne presentava l’occasione il parroco indirizzava precisi messaggi alla gente, criminali e cittadini comuni, anche ricorrendo a gesti eclatanti. Durante le celebrazioni di Natale, ad esempio, venendo a conoscenza del sequestro del piccolo Rocco Lupini, non mise il Gesù bambino nella culla del presepe.

Durante le celebrazioni di Natale, venendo a conoscenza del sequestro del piccolo Rocco Lupini, non mise il Gesù bambino nella culla del presepe

Da uomo intelligente sapeva, però, che le radici della cultura mafiosa, quelle che affondavano profonde nel terreno, non potevano essere estirpate. Per questo motivo in molte prediche parlava ai ragazzi: loro sì che potevano scegliere un’altra vita. Su RaiUno, intervistato da Enzo Biagi, don Italo disse: “Con le persone della mia generazione ormai c’è da sperare solo in un miracolo divino. Il vero lavoro da fare è nelle giovani generazioni, per creare una cultura e una mentalità del tutto nuove”. Un concetto ribadito nel febbraio 1990 ad Avvenire: “I giovani nella stragrande maggioranza condannano il fenomeno mafioso, anche se si sentono indifesi, soli, non sanno cioè come aggredirlo, dato che mancano forme di solidarietà e di aggregazione nella società civile, ma anche nelle chiese locali”.

Spiritualità e concretezza

Rileggendo gli scritti che don Italo ha lasciato in eredità, le trascrizioni delle sue omelie e le interviste rilasciate a giornali e televisioni, si percepisce una grande vocazione spirituale unita a una terrena ed eccezionale concretezza. Nel corso del suo sacerdozio celebrò decine di funerali di morti ammazzati dalla ’ndrangheta, compresi quelli degli affiliati alle ’ndrine. A differenza di altri preti, che preferivano rifiutare e per questo furono minacciati, sapeva bene che quei momenti solenni andavano sfruttati, in quanto occasione per provare a convincere i mafiosi, ma non solo, che oltre alla criminalità c’era dell’altro. 

Nel corso del suo sacerdozio celebrò decine di funerali di morti ammazzati dalla ’ndrangheta, compresi quelli degli affiliati alle ’ndrine

In un’omelia del 1984, in occasione del rapimento di Vincenzo Diano – un bambino di 10 anni sequestrato dalla ‘ndrangheta a Lazzaro, a pochi chilometri da Reggio Calabria, e rilasciato dopo 72 giorni di prigionia – don Italo pronunciò delle parole forti: “Io conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data proprio a questa parola ‘uomo’. I mafiosi si ritengono uomini, e addirittura, la parodia diventa sacrilega, ‘uomini d’onore’: se c’è qualcuno che non ha l’onore è il mafioso, i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo tranquillamente, con tutta la comprensione e la pietà”.

Don Italo insieme a un gruppo di ragazzi
Don Italo insieme a un gruppo di ragazzi

Don Italo parlava a tutti, soprattutto alle madri, che per quanto amassero i propri figli di rado riuscivano a svincolarsi dai codici mafiosi. Don Pino Demasi, parroco di Polistena e referente di Libera a Gioia Tauro, che operò al suo fianco, racconta un aneddoto emblematico: “Ero andato a prendere il figlio di un ‘ndranghetista ucciso, ma prima di consegnarmi il giovane la donna ci condusse alla fine di un lungo corridoio. C’erano le foto dei morti e i lumini accesi. La matriarca si tolse la pistola dal seno e, rivolgendosi al ragazzo, disse: ‘Ricordati che sono stati ammazzati per te’. Le madri volevano che in quel momento i figli fossero sottratti alla morte, ma poi, una volta uomini, pretendevano che tornassero indietro per vendicare i propri cari”.

Per la 'ndrangheta radici locali e opportunità globali

Don Pino incrociò don Italo in Caritas e grazie a lui appoggiò la pratica dell’obiezione di coscienza. “Era un uomo libero, di una profonda spiritualità – ricorda il parroco – vicino alla gente, da cui non si è mai allontanato. Amava i poveri e ha capito che la Calabria doveva essere riscattata dal male della ’ndrangheta. Per noi preti calabresi è stato un maestro, un esempio da seguire. Un personaggio scomodo anche per la stessa curia dell’epoca, tant'è che non mancarono le volte in cui rimase isolato”. 

Da don Italo a don Luigi

"Don Italo Calabrò fu tra i primi a cogliere le radici culturali della violenza mafiosa. E a riconoscere, nella mancanza diopportunità e lavoro, una pericolosa concausa, che spingeva troppi giovani verso l’illegalità". Così don Luigi Ciotti, che per molti preti calabresi rappresenta una sorta di discepolo di don Italo. I due si incontrarono per la prima volta negli anni Settanta a Roma, durante un convegno sul volontariato.

Ciotti: "Esportiamo nel mondo l'immagine della Calabria coraggiosa"

Nel 2015, don Luigi ricordava così l'amico: “Ho conosciuto li la sua profondità, il suo amore per Dio e per le persone. Incominciò con un sostegno ai giovani che nel ‘68 occupavano la scuola Pannella, portava loro cibo e coperte, li sosteneva e accompagnava durante quelle manifestazioni. Lui invitava i ragazzi a conoscere, conoscere per diventare delle persone più responsabili. Lui ci ricordava che conoscenza e responsabilità non è una vocale, ma è verbo. Conoscere è responsabilità, responsabilità è conoscenza. Dopo la scuola li sollecitava verso un impegno concreto”. 

"Lui invitava i ragazzi a conoscere per diventare delle persone più responsabili", ricorda don Luigi Ciotti

E ancora: "Si rivolgeva soprattutto ai più piccoli. Me ne mandò alcuni a Torino, in accordo col tribunale dei minori, per sottrarli alla spirale sanguinosa delle faide". Sulla sfida lanciata alla ‘’ndrangheta, don Ciotti aggiunse: “Professava quella antimafia della concretezza, che per lui voleva dire dare un’alternativa di vita ai ragazzi che vivevano in contesti mafiosi. Praticava il lavoro di tanti che camminano assieme e non di eroi solitari. Voleva che nelle diverse diocesi le chiese collaborassero".

La strategia della nonviolenza

Don Italo sostenne sempre l’idea di una strategia sociale nonviolenta contro la mafia. Nel marzo 1990, durante un incontro con gli studenti di un liceo di Reggio, spiegò: “Una nonviolenza forte, coraggiosa, che paga senz’altro un prezzo molto alto come ha fatto Gesù Cristo, che non ha tolto la vita a nessuno, ma ha dato la sua per gli altri. Il vangelo è questo, non le interpretazioni in termini sdolcinati e sentimentalistici che se ne danno. È amore forte, che redime disarmando, che redime illuminando, che redime offrendo alternative”.

Si resti arrinesci, ovvero: rinascere in terra di 'ndrangheta

“Dobbiamo essere educatori – insisteva – insegnate ai vostri figli a perdonare, non a vendicarsi, dite che vince chi è capace di stendere la mano verso chi l’ha offeso, non chi la alza con il pugnale, con la pistola. Dite che il lavoro onesto rende poco, ma dà sicurezza, dà pace, dà tranquillità. Il lavoro disonesto, il traffico di armi, di droga, rende molto, si guadagna molto ma senza pace, senza tranquillità e senza vita. Voi vedete la gente che prende questa strada che vita d’inferno fa: non hanno pace e non ne fanno avere agli altri. (...) I ragazzi sono ancora da salvare, gli adolescenti possono essere ancora sottratti a questa maledetta voragine di vendetta, di violenza, di inimicizia, di contrasti”.

Un’altra Calabria

Don Italo amava la sua terra e la sua gente. Ha ragione don Pino Demasi quando dice che mai pensò di allontanarsi, come se avesse una missione da portare a termine. In una delle sue tante omelie pronunciò parole di speranza ancora oggi attuali, che la parte sana della società ha fatto sue e custodisce.

Don Italo amava la sua terra e la sua gente. Mai pensò di allontanarsi, come se avesse una missione da portare a termine

“La Calabria non può e non deve essere identificata con un gruppo o un manipolo o una legione che siano, di gente che ha come sola finalità la prepotenza, la violenza e la morte; noi siamo per la giustizia, per la libertà, per la pace, per la vita, siamo per il rispetto di ogni persona, ma soprattutto intendiamo difendere la vita dei più piccoli, dei più deboli, dei più poveri, dei più emarginati, di coloro che non hanno voce”.

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