15 ottobre 2021
Il 13 marzo 2008 è stata inferta una delle peggiori ferite alla libertà di stampa in Italia. A ricordala, nei giorni del conferimento del Premio Nobel per la pace ai due giornalisti d'inchiesta Maria Ressa e Dmitry Muratov, è la sentenza di condanna per le minacce pronunciate davanti alla Corte d'assise d'appello di Napoli dall'avvocato Michele Santonastaso, difensore del boss dei casalesi Francesco Bidognetti, contro due giornalisti, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, minacce tanto gravi che nelle ore successive a uno è stata rafforzata e all'altra fu attribuita la scorta. Pochi giorni fa il Tribunale di Roma ha pubblicato le motivazioni della condanna inflitta il 24 maggio scorso al camorrista (un anno e mezzo di reclusione) e al suo legale (un anno e due mesi). Secondo i giudici, il 13 marzo 2008 è stata attuata una “precisa strategia” per mettere a tacere l’autore di Gomorra e la giornalista de Il Mattino. E un effetto c'è stato, come hanno spiegato i due scrittori sentiti dai giudici romani in qualità di persone offese: accusati di cercare solo la fama, senza alcun interesse reale nella lotta alla mafia, sia Saviano, sia Capacchione hanno dovuto cambiare vita e modificare abitudini.
Capacchione e Saviano hanno dovuto cambiare vita, modificare abitudini, sentirsi accusati di cercare la fama e non essere interessati alla lotta alla mafia
Questa storia è uno spaccato vivido di cos'è il giornalismo d'inchiesta in luoghi difficili del pianeta. L'agro aversano è uno di quei luoghi.
L'avvocato di Francesco Bidognetti (e di Antonio Iovine, altro capo di quel gruppo criminale) quel giorno ha letto in aula un'istanza per chiedere di spostare il processo in un altro tribunale dove, sosteneva, ci sarebbe stato un clima meno compromesso contro il suo cliente. Il testo era lungo trenta pagine, abbastanza irrituale, visto che avrebbe dovuto soltanto rendere nota la domanda di rimessione ai giudici. Ogni frase, però, è stata condivisa "espressamente da imputati collegati in videoconferenza (...). Costoro promossero personalmente la domanda che venne depositata in quella sede", sostengono i giudici della Cassazione nel respingere la richiesta di Santonastaso. Ciò significa che il contenuto, le minacce, vennero da Bidognetti in persona. Questo aspetto, già nell'immediato, fu considerato un atto di gravità inaudita, scandalizzò e allarmò molti altri avvocati e tanti giornalisti. Il ministero dell'Interno rafforzò la protezione dei due giornalisti. Scrive adesso il Tribunale di Roma che quella "irrituale lettura in udienza da parte dell'avvocato" ebbe "il malcelato scopo di dare risalto pubblico all'atto di rimessione e aumentare l'impatto offensivo e intimidatorio".
"La lettura dell'istanza per spostare il processo aveva lo scopo di aumentare l'impatto offensivo e intimidatorio"Tribunale di Roma
A innescare quell'atto sono state le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia, Augusto La Torre, che in precedenza aveva mosso accuse all'avvocato Santonastaso poi pubblicate da Il Mattino. Santonastaso disse che quelle affermazioni avevano fatto "immediatamente il giro della regione attraverso il compiacente e interessato appoggio della cosiddetta carta stampata, inutile dirlo sempre la stessa, e nella persona dei soliti giornalisti prezzolati ovverossia Rosaria Capacchione, puntuale a soddisfare con la penna le esigenze di alcuni pm", e il "noto romanziere" Saviano. In particolare l'avvocato si soffermò a commentare un articolo del 6 luglio 2007: "Il presente articolo non può non turbare gli animi dei giudici (...), ma non è quello che preme in questa sede sottolineare bensì è solo un invito al signor Saviano e ad altri come lui a fare bene il proprio lavoro e a non essere la penna di chi è mosso da fini ben diversi rispetto a quello di eliminare la criminalità organizzata". Eccola qui la minaccia, piombata in un processo tra i più difficili di sempre contro la criminalità organizzata.
"(Questo) è solo un invito al signor Saviano e ad altri come lui a fare bene il proprio lavoro e a non essere la penna di chi é mosso da fini ben diversi rispetto a quello di eliminare la criminalità organizzata"Santonastaso
Il processo Spartacus è servito a dare la reale dimensione del clan di Casal di Principe e a rendere conto del potere acquisito negli anni, della ferocia consumata con decine di vittime. Era un'immagine che soprattutto i capi non volevano fosse nota all'esterno del piccolo perimetro controllabile della provincia di Caserta. Fu questo il contesto esplosivo nel quale ci fu la minaccia ai due giornalisti e dunque a tutta l'informazione italiana, come ha riconosciuto in questa sentenza il Tribunale di Roma, stabilendo un risarcimento alla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi, il sindaco dei giornalisti) e al Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Campania.
Dopo sette anni e 627 udienze davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il processo denominato Spartacus si è concluso in primo grado con sentenze dell'ottobre 2004 e del settembre 2005. Il processo ruotava su una serie di omicidi consumati e tentati da parte del clan dei casalesi tra il 1988 e il 1996. Alla fine è emerso un quadro terribile: i casalesi si formarono dopo la sconfitta del clan Bardellino con l'uccisione del fondatore, Antonio, già aderente alla Nuova Famiglia (l'organizzazione camorristica nata per contrastare la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, ndr). Il ruolo di Antonio Bardellino passò a Bidognetti, Mario Iovine, Francesco Schiavone e Vincenzo De Falco che presero il controllo di tutto con una gestione militare del territorio e la eliminazione di ogni possibile dissenso.
Raccontare gli affari dei casalesi avrebbe infastidito i boss. Dunque bisognava fermare il nemico, ossia i giornalisti
I casalesi erano ovunque: negli appalti pubblici, nel traffico di armi e droga, nelle costruzioni, nel controllo dei voti, nella erogazione dei contributi pubblici. Raccontare questa loro performance avrebbe dato molto fastidio ai capi, al capo Bidognetti, detto Cicciotto e' mezzanotte. Dunque bisognava fermare il nemico, ossia i giornalisti, e farlo in un modo e in luogo che destassero tanto scalpore da far arrivare il messaggio sia al resto del sodalizio, sia all'intera comunità. Quando si consuma la minaccia Cicciotto e' mezzanotte era in carcere, eppure anche da lì continuava a esercitare il suo dominio. E infatti l'avvocato lesse il documento per conto dei suoi assistiti Bidognetti e Iovine paventando anche la non serenità di alcuni magistrati, tra i quali inserì Raffaele Cantone.
Raccontare le mafie. tante carte, poca strada
Sul ruolo dei cronisti Santonastaso aveva parlato di "clima di sospetti e ingiuriose supposizioni" frutto anche "della collaborazione di alcuni prezzolati giornalisti della carta stampata locale, per decenni a servizio dei poteri forti" i quali "mascherano la loro indole servile e meschina attraverso un vittimismo eroico di lotta alla camorra". Poi l'affondo definitivo: "Roberto Saviano che, sulle ceneri della camorra, con l'aiuto di qualche magistrato alla ricerca di pubblicità, cerca di far emergere il proprio successo professionale, che nulla a che vedere con il sacrosanto diritto di cronaca. Non avrebbero altra spiegazione, se non quella di creare un condizionamento nella libertà di determinazione nei giudici che partecipano al processo, causandone una non imparzialità e una non serenità di giudizio, alcuni articoli di cronaca comparsi su quotidiani locali e nazionali".
Un "contenuto improprio e violento", lo definiscono i giudici di Roma, che tratteggiano anche la volontà del boss di rimarcare la sua autorevolezza criminale. Era un attacco preciso perché si citava una pagina specifica del libro di Saviano: "Vorremmo conoscere dal signor Saviano da dove ha attinto le notizie riportate a pagina 211 del proprio romanzo". La notizia era l'attribuzione a Bidognetti dell'omicidio di Antonio Bardellino, un fatto che il boss aveva necessità di smentire per le dinamiche interne e gli equilibri del clan.
La strategia era demolire la credibilità dei giornalisti, denigrandoli, isolandoli e intimando il silenzio
Di questa vicenda resta la speranza che i giornalisti in Italia possano ancora essere difesi dalle istituzioni democratiche contro lo strapotere e la violenza della criminalità organizzata. Ma anche la consapevolezza che esiste in Italia un nodo oggettivo, ossia l'interesse della mafia a bloccare l'informazione in quanto considerata un pericolo verso gli associati e verso l'immagine che essi mandano all'esterno dell'organizzazione stessa. Il concetto è riassunto proprio nella sentenza Capacchione-Saviano: "La conclusione che si deve trarre ad avviso del tribunale è che oltre che alla rimessione Bidognetti era fortemente interessato (e lo è ancora) a rendere chiaro all’esterno che non poteva essere a lui pubblicamente attribuita la paternità dell’omicidio Bardellino e aveva interesse a che Saviano fosse, altrettanto pubblicamente, ‘messo a posto’ affinché non ne venisse scalfita la sua autorità e affinché il giornalista, o altri come lui, non prendesse nel futuro iniziative nei suoi confronti", si legge nelle motivazioni.
I giudici scrivono ancora che: "In definitiva la sua strategia, che il suo difensore Santonastaso pedissequamente seguì, era quella di demolire la credibilità di Saviano, denigrandolo e additandolo come giornalista prezzolato e quindi di isolarlo e di intimargli il silenzio. Conclude questo tribunale che l’intervento di Santonastaso, nella parte in cui, in modo del tutto avulso dalla finalità dell’atto di rimessione, contiene minacce rivolte ai due giornalisti, fu quindi dettato dall’interesse di Bidognetti di bloccare la loro azione nei suoi confronti".
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