Raccontare le mafie: poca strada, troppe carte

Oggi vince il giornalismo spettacolo e sembra che se un cronista non è minacciato, e poi scortato, non sia davvero bravo. Ma Siani non ha mai avuto la scorta

Toni Mira

Toni MiraGiornalista e componente del comitato scientifico de lavialibera

3 maggio 2021

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"Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene". È una delle frasi più famose di Paolo Borsellino, un lascito morale e professionale per noi giornalisti. Già, ma come parlare, come scrivere, come raccontare la mafia? Soprattutto oggi, a quasi trent’anni dall’appello di Borsellino. È dei primi di marzo l’accusa del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri: "Il problema delle mafie non è nell’agenda politica, perché non crea allarme sociale. La politica in genere si muove in funzione degli argomenti che i media di élite pongono all’attenzione in prima pagina dei quotidiani e nei titoli di testa dei telegiornali. E a volte il sistema mediatico diffonde notizie false che indeboliscono l’attività giudiziaria della magistratura". Ma davvero, come dice Gratteri, il tema mafie è scomparso dai giornali, almeno dai principali, i “giornaloni”?

Le minacce non indicano sempre qualità

Secondo gli ultimi dati dell’osservatorio del ministero dell’Interno, nel 2020 gli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti sono stati 163, l’87 per cento in più rispetto al 2019 (87 casi). La matrice è riconducibile per 27 episodi a contesti di criminalità organizzata (di cui 15 via web) pari al 17 per cento, per 69 casi a contesti socio/politici (di cui 32 via web) pari al 42 per cento, per 67 atti ad altri contesti (di cui 24 via web) pari al 41 per cento. Nel 2021 gli episodi già registrati sono 23. Lazio, Sicilia, Campania, Calabria e Lombardia sono le regioni in cui si sono verificati il maggior numero di casi. Nel 2020 è cresciuta la percentuale delle intimidazioni pervenute via web (il 44 per cento del totale). Minacce vecchie e nuove che hanno fatto arrivare a venti i giornalisti sotto tutela.

Una buona notizia in terre di mafie è una grande notizia e va raccontata

Dati preoccupanti, ma possono essere rivelatori di interesse e impegno dell’informazione sul tema mafia? Sono le minacce il segno di un’informazione attenta, approfondita e efficace o sono altro? Un tema molto delicato e anche scivoloso. Basti ricordare l’assurda vicenda di Mario De Michele, direttore del giornale online Campania notizie che lo scorso anno aveva denunciato alcune aggressioni, addirittura a colpi di pistola, poi risultate false, autoprodotte. Una patologia o un sintomo da non sottovalutare? Se per avere visibilità si arriva a questo siamo davvero messi male. Anche perché De Michele oltre ad ottenere la tutela aveva ricevuto la solidarietà non solo di molti famosi colleghi, ma anche dell’Ordine dei giornalisti (Odg) e della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), il sindacato unitario dei giornalisti. Una sorta di automatismo: giornalista minacciato uguale giornalista esempio di buona informazione antimafia. Peccato che sarebbe bastato leggere quel giornale online per trovare ben altro, compresi gli attacchi a esponenti del mondo dell’antimafia e perfino a giornalisti impegnati su questo fronte. Uno spiacevole errore? Sì. Ma poteva essere l’occasione per una riflessione sull’informazione antimafia, che purtroppo non c’è stata.

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Una seduta di autocoscienza 

È stata un’eccezione l’encomiabile incontro organizzato il 22 giugno 2020 a Casa don Diana a Casal di Principe da Libera Caserta e dal Comitato don Peppe Diana. Nella villa confiscata a Egidio Coppola e che ora ospita tante (ma ignorate dalla grande stampa) iniziative di antimafia sociale, sono intervenuti giornalisti e magistrati in un confronto non facile, quasi da autocoscienza: "Non siamo noi la notizia, ma quello che scriviamo", è stato detto nel corso dell’incontro. E il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, ha usato parole molto gravi: "C’è un’informazione corretta della quale non si occupa nessuno, non fa effetto. E ci sono tantissimi esempi di informazione deontologicamente scorretta, a volte anche giuridicamente illecita, che invece hanno una grande eco, una grande risonanza". Il “giornalismo spettacolo”, che sembra voler cercare lo scontro, anche quello col mafioso.

Sembra che se un cronista non è minacciato, e poi scortato, non sia davvero bravo. Ma quanti grandi cronisti del passato hanno avuto la scorta? Nessuno. Molti di più sono stati uccisi. Proprio per quello che scrivevano, non per qualche “provocazione” sotto la casa di un boss. Certo, Peppino Impastato usava un linguaggio provocatorio, irrideva i mafiosi, ma eravamo alla fine degli anni ’70, anni dove si diceva "l’ironia al potere" e – appunto – era ironia, a volte dura, ma piena di notizie. E per questo Peppino pagò con la vita, così come gli altri cronisti vittime delle mafie. Perchè andavano oltre la notizia e sporcandosi le scarpe cercavano di capire cosa ci fosse dietro un fatto.

"Ragazzi, molto spesso bambini, già inseriti in un 'giro' di droga. Per loro quale futuro? Se non diventano consumatori di eroina, se riescono a sopravvivere, è difficile che possano imboccare altre strade che non siano quelle dell’illegalità, dello spaccio diretto, dello scippo, del furto". Lo scriveva Giancarlo Siani il 22 settembre 1985, il giorno prima di essere ucciso dalla camorra, ad appena 26 anni. Doveva raccontare un fatto di cronaca che però per lui è divenuta occasione per affrontare il tema dei ragazzi napoletani dei quartieri più difficili, un’inchiesta. Giornalista vero, oltre a denunciare cercava di capire. Quanto giornalismo antimafia cerca di capire quello che accade oggi? Troppe storie del passato e troppo poche di attualità. Racconto di atti giudiziari e non di quello che accade sui territori, di quello che le mafie sono oggi, uguali e diverse.

Sembra che solo i cronisti minacciati siano bravi. Ma Siani non ha mai avuto la scorta

Gli scambi e le amicizie. Citiamo di nuovo il procuratore Melillo: "Alcune notizie nascono da una lenta, autonoma, indipendente ricostruzione di vicende che forse costituiscono reato o forse no, ma che contribuiscono a illuminare una zona che altrimenti rimarrebbe nell’ombra". Ecco "il fondamentale ruolo del giornalismo". Invece vediamo paginate di intercettazioni e di verbali e poca narrazione. Certo, le indagini vanno raccontate, ma non basta. E ci sono anche dei pericoli. "Il giornalista deve essere protetto dal rischio di entrare in un’area grigia di scambi immorali, cioè il rischio di doversi procurare la compiacenza del pm, dell’ufficiale dei carabinieri o della Finanza, o del difensore per entrare in possesso degli atti di indagine. Una sorta di accattonaggio". E qui tocchiamo un tasto dolente, su cui il mondo dell’informazione fa fatica a riflettere con trasparenza. Il caso Montante e la vicenda Palamara riguardano anche noi, i rapporti tra giornalisti e potenti, tra giornalisti e magistrati. Certo, è compito del cronista cercare notizie, rapportandosi con tutti, ma altra cosa è chiedere favori in cambio, o utilizzare i propri articoli per favorire qualcuno, anche nella scalata a una procura. Questo c’è nelle carte di alcune inchieste sulle quali è calato un silenzio come minimo corporativo. E anche questo meriterebbe una riflessione non superficiale. Così come il fatto che in tema di mafia e antimafia sui giornali finiscano quasi sempre notizie negative.

Querele temerarie, l'informazione sotto scacco

Il positivo in ultima pagina

L’ultimo esempio è il venticinquesimo anniversario della legge 109 del 1996 che prevede l’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie. Dell’approfondito dossier di Libera realizzato per l’occasione, i pochi articoli pubblicati hanno messo in luce solo che il 50 per cento di questi beni tolti alle mafie non è stato ancora destinato. La notizia c’è tutta, ma c’è anche quella che circa novecento realtà – associazioni, cooperative sociali, parrocchie, gruppi scout e tanti altri – stanno usando questi beni, riportandoli a nuova vita, non più cosa loro ma davvero cosa nostra, della comunità. Una gran bella notizia che, purtroppo, non è stata ritenuta notizia.

È il classico albero che cade che fa più rumore di un foresta che cresce, ancor più valido in tema di mafia. Sbagliando. Perché una buona notizia in terre di mafie è una grande notizia, al di là del suo valore etico. È sicuramente una notizia che nella Corleone di Totò Riina tutti i beni confiscati siano utilizzati, in gran parte garantendo lavoro vero e pulito. Ed è sicuramente una notizia che nella Casal di Principe di Francesco Schiavone detto Sandokan ben sei ville confiscate al clan siano ora delle scuole. Invece è successo che questo mondo positivo dell’antimafia sociale sia finito nel mirino del fuoco amico di alcuni giornalisti o siti online. Confondendo le carte. Qualche volta nella sterile gara a chi è più antimafia.

È vero, il giornalismo deve continuare a denunciare, a scavare, a scoprire quello che non va, ma deve anche raccontare con onestà e verità i risultati raggiunti, le vittorie, i traguardi. Perché, lo ripetiamo, sono una notizia e perché raccontando queste buone notizie si sostengono i protagonisti positivi. Loro sì, ad alto rischio. Ma bisogna incontrarli, toccare le loro vite.

"La crisi dell’editoria – ha scritto Papa Francesco nel messaggio per la 55esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali – rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni". Parole ancora più vere per il giornalismo sulle mafie. Poca strada e troppe carte, poco racconto e troppe veline. E la ricerca a tutti costi dello scoop, per essere definito giornalista d’inchiesta. Mentre l’inchiesta è fatica, approfondimento, narrazione. Facendo anche dei passi indietro. Come in montagna, dove il coraggio non è incoscienza, dove la vetta conta ma anche il cammino per raggiungerla. 

Da lavialibera n°8 2021

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