Claudio Fava (Osce Parliamentary Assembly - Flickr)
Claudio Fava (Osce Parliamentary Assembly - Flickr)

In Sicilia l'Antimafia contro i falsi miti e i sistemi di potere

In un colloquio con lavialibera il presidente della Commissione dell'Assemblea regionale siciliana Claudio Fava va contro "chi costruisce la mitologia dei propri rischi ottenendo un salvacondotto per l'impunità"

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

30 gennaio 2020

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Stanno indagando sul ciclo dei rifiuti in Sicilia, la gestione della raccolta e dello smaltimento della munnizza dell’Isola, affare da decine di milioni di euro, che ogni anno finiscono nelle casse di pochi imprenditori. "Racconteremo venti anni di malversazioni, corruzioni e distrazioni che si sono accumulate – dice a lavialibera Claudio Fava, giornalista e politico, deputato all’Assemblea regionale siciliana (Ars) e presidente della commissione d’inchiesta sulla mafia e sulla corruzione in Sicilia –. Proviamo a chiarire il ruolo dei privati come monopolisti di fatto e la grande disponibilità dei governi che hanno dato a questo monopolio centinaia di milioni di euro ogni anno. È il peggior ciclo di rifiuti in Italia". Questo è uno dei grandi temi affrontati dalla commissione da lui presieduta. "Abbiamo cercato di approfondire sia gli aspetti legati alle interferenze e alla pervasività della mafia nelle attività politiche, amministrative ed economiche, sia gli aspetti corruttivi, soprattutto cercando di ricostruire quei sistemi di potere parallelo elemento di metastasi nelle amministrazioni e nella politica in Sicilia, innanzitutto il sistema Montante", spiega Fava.

La rete di Montante

Parla del caso di Antonello Montante, ex responsabile legalità di Confindustria ed ex presidente di Confindustria Sicilia, un paladino dell’antimafia di facciata condannato a 14 anni di reclusione per associazione a delinquere e corruzione: uomo al centro di una rete di politici, alti rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura nata per fare i suoi affari e favorire quelli degli amici più stretti. Era in ottimi rapporti con politici di spicco, tra cui l’ex presidente del Senato Renato Schifani e l’ex ministro Angelino Alfano che lo nominò nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, o con uomini delle forze dell’ordine di altissimo rango, come l’ex direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, i servizi segreti interni) Arturo Esposito.

La commissione dell’Ars ha lavorato per dieci mesi su questo affaire ascoltando 49 persone. Alla fine, il 19 marzo 2019, ha pubblicato un rapporto di 121 pagine. Dalla lettura emerge il modo in cui Montante è riuscito a "piazzare" i suoi "uomini" nell’amministrazione. Ad esempio Marco Venturi, successore di Montante come presidente dei giovani industriali siciliani nominato assessore alle attività produttive della giunta di Raffaele Lombardo, prima amico fidato e poi grande accusatore. O ancora le due fedelissime, Linda Vancheri e Mariella Lo Bello, sempre alle attività produttive ma per la giunta di Rosario Crocetta. "Questo complesso sistema di consenso – ripercorre Fava – riguardava non soltanto l’amministrazione regionale, ma anche un pezzo dell’antimafia e un pezzo del sistema d’informazione in Italia con una serie di comportamenti, compiacenze e disponibilità fuori da qualsiasi ipotesi di reato. Non è un potere criminale, ma un sistema di potere deviato".

Secondo il politico, "Montante è il simbolo di questo sistema e non ne è né l’ideatore né l’unico responsabile. È stato inventato per essere garante di carriere, impunità e privilegi che hanno riguardato livelli apicali della Repubblica italiana, non soltanto siciliana". Montante influenzava le decisioni, favoriva l’ascesa degli amici e la caduta di chi metteva in dubbio la sua bontà. E faceva gli affari suoi: "Non rappresentava soltanto Confindustria, ma innanzitutto se stesso e altri imprenditori a lui legati che conoscevano bene alcuni snodi dell’economia siciliana". Per questo la commissione ha approfondito alcuni aspetti riguardanti società pubbliche, come il tentativo di controllare l’Istituto regionale delle aree produttive (Irsap): "È l’ente che doveva raccogliere le aree di sviluppo industriale – spiega Fava –. È stata un’operazione da manuale. Controllare l’Irsap voleva dire controllare le aree di sviluppo industriale e anche le camere di commercio, aeroporti e altro". C’è poi la fallita fusione tra l’Azienda siciliana di trasporti (Ast) e un’azienda dell’imprenditore nisseno, la Jonica Trasporti: "Dal nulla avrebbe messo mano su un patrimonio immobiliare da 400 milioni di euro fatto di autorimesse, garage e magazzini sparsi in Sicilia".

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In sostanza "il potere non è soltanto fine a se stesso, era finalizzato ai conti in banca". Magari quelli aperti nella Banca Nuova, istituto di credito legatissimo ai servizi segreti in cui Montante aveva i suoi interessi. Altri affari ancora dimostrano la rapacità di Montante. Un esempio? Quelli legati all’Expo con l’assessore alle attività produttive Vancheri che aveva affidato direttamente (quindi senza gare pubbliche) due milioni di euro alla promozione delle imprese isolane all’Unioncamere Sicilia presieduta da Montante, dando origine a un fiume di consulenze e lavori finiti ad altri imprenditori del giro. Ascoltato dalla commissione dell’Ars, il governatore siciliano Nello Musumeci ha rinominato il “sistema Montante” come “sistema Lumia”, riferendosi a Beppe Lumia, ex senatore Pd. "Si può chiamare anche in questo modo – concorda Fava –. Frequentava stabilmente il palazzo d’Orleans, sede del governo regionale, dove continuava a gestire, ricevere, pretendere e garantire con una funzione di governo parallelo che ha inopinatamente rivendicato in commissione, spiegandoci che lui si occupava di politica lasciando ad altri la funzione tecnico-amministrativa".

Questi sistemi hanno danneggiato l’amministrazione pubblica: "Non c’era più una cosa pubblica, ma una cosa privata. Le funzioni di decisione e di spesa erano di fatto privatizzati con un’apparente funzione di governo sottoposta ai controlli e alla vigilanza previsti dalla legge". Così, a rileggere i nomi delle persone in stretto contatto con Montante e gli scambi di favore, sembra di vedere un sorta di P2: "Il sistema è quello piduista, delle logge massoniche coperte. Il problema è il metodo: se hai il direttore dell’Aisi, il ministero dell’Interno, il presidente della regione, funzionari di alto rango di finanza, carabinieri, prefetture e polizia di stato, la logica è quella. Una consorteria parallela e chiusa, al riparo da sguardi indiscreti nella quale si gestiva potere". Molti erano a conoscenza di quanto accadeva attorno a Montante, ma pochi hanno alzato la voce: "È mancato il coraggio ed è prevalsa la convenienza. Ciascuno trovava il modo per ottenere un salvacondotto o uno scatto di carriera. Faceva comodo avere dalla propria parte Confindustria e un pezzo delle istituzioni della Repubblica. Metteva al riparo da sguardi e dubbi. Il “brand dell’antimafia” era anche questo: una sorta di privilegio di immunità e impunità. Nessuno poteva criticare".

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L'agguato dei Nebrodi

Uno degli ultimi lavori della commissione è stata la relazione sul fallito attentato, avvenuto il 18 maggio 2016 nel Parco dei Nebrodi, contro Giuseppe Antoci, ex presidente dell’ente del Parco (ruolo con cui ha introdotto un protocollo per le verifiche antimafia alle aziende che volevano affittare pascoli e ottenere i fondi per l’agricoltura) ed ex responsabile legalità del Partito democratico. "Siamo partiti dall’archiviazione dell’inchiesta su uno dei più eclatanti attentati falliti di mafia, in sé un elemento abbastanza inquietante". Perché? "Su questa vicenda molte preoccupazioni erano state sollevate da autorevoli organi di informazione e c’erano rappresentanti delle istituzioni che avevano manifestato il dubbio che le cose non fossero andate come ricostruite da Antoci, che mi sembra poco consapevole di quanto accaduto, e dagli addetti alla sua scorta".

Dopo lo studio degli atti giudiziari e dopo l’ascolto di persone informate sui fatti, non è stato possibile arrivare a una verità, ma a tre ipotesi: un attentato mafioso fallito per eliminare Antoci, un avvertimento, una messinscena di cui Antoci sarebbe doppiamente vittima."Di queste l’attentato mafioso per uccidere è l’ipotesi meno probabile — dice Fava —. Ci sono anomalie procedurali e operative e contraddizioni nelle ricostruzioni. Fanno pensare che ci siano cose non dette o dette in modo impreciso". Report ha trattato questo caso in una delle sue inchieste dedicate al "sistema Montante". Ci sono elementi comuni con quel caso? "C’è la sovrapposizione di alcuni personaggi, Lumia e Crocetta, che avevano 'investito' su Antoci: era un’immagine spendibile ad alti livelli istituzionali". Resta poi un altro mistero legato, temporamente, a questo caso: la morte di due agenti di polizia del commissariato di Sant’Agata Militello, Tiziano Granata e Rino Todaro, avvenute il 1 e 2 marzo 2018. "Leucemia fulminante e arresto cardiocircolatorio, confermate dall’autopsia. Una coincidenza clamorosa. Entrambi lavoravano al commissariato di Sant’Agata Militello guidato da Daniele Manganaro". La notte del 18 maggio 2016 Manganaro era sopraggiunto sul luogo dell’agguato e aveva sparato verso gli attentatori. Era stato poi chiamato a partecipare alle indagini. Dopo la morte dei suoi agenti ha chiesto e ottenuto il trasferimento al commissariato di Tarquinia (Viterbo).

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L’antimafia riparte

Negli ultimi anni il movimento antimafia ha subito dei duri colpi dopo vicende come quella di Montante, o di Roberto Helg (ex presidente della Camera di commercio di Palermo che tuonava contro il pizzo e poi chiedeva tangenti, condannato in appello a 3 anni e 8 mesi per concussione ed estorsione) o ancora dell’ex giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo imputata di corruzione e falso per aver affidato, in cambio di favori e regali, molte amministrazioni giudiziarie di aziende mafiose ad alcuni professionisti compiacenti.

Adesso, sostiene Claudio Fava, l’antimafia "deve tornare a essere un cane da guardia di istituzioni e politica, non un 'brand'”: "Ci si è smarriti in un eccesso di mondanità e autocompiacimento. Queste responsabilità hanno fornito un’occasione di distorsioni e profitti privati – prosegue –. Bisogna tornare a un’antimafia dei fatti, più che alle celebrazioni". A perdere di credibilità, sostiene, è il tema ed "è compito della buona antimafia recuperare la propria assoluta credibilità e garantire che la tradizione di un’antimafia dei fatti resti un punto di riferimento per la vita politica e civile in Italia. Dobbiamo cercare di garantire le premesse di questo rilancio". Un movimento di denuncia? "Non solo, ma anche di costruzione, che sia diversa dall’antimafia dei giubbetti antiproiettili, quella di chi dice che andando contro di lui si va con la mafia, di chi si definisce un condannato a morte che cammina, di chi costruisce la mitologia dei propri rischi ottenendo un salvacondotto per l’impunità".

Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020

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