30 gennaio 2020
Per comprendere l’attuale configurazione di Cosa nostra, occorre partire dalla sua complessità, senza appiattirne la storia in una "notte nera" dove "tutte le mafie sono uguali", ma valorizzando le sue dimensioni identitarie, radicate su fatti, eventi e intersezioni assolutamente unici. Limitando l’attenzione all’ultimo trentennio, punto di osservazione privilegiato sono le stragi degli anni Novanta, le cui vicende vanno studiate non solo per la brutale violenza che le ha contraddistinte (in continuità con una violentissima guerra di mafia preceduta e seguita da una sfilza di "delitti eccellenti"), ma per la loro difformità rispetto alle "nomali" logiche mafiose, tanto da suscitare le perplessità di Gaspare Spatuzza che incontrando Giuseppe Graviano, prima dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, definisce le vittime delle stragi di Firenze e di Milano "morti che non ci appartengono". Se a tutto ciò aggiungiamo le tante "anomalie" che hanno contraddistinto le indagini e i processi che sulle stragi hanno tentato di far luce, ci rendiamo conto di quanto questi eventi siano cruciali per comprendere il ruolo giocato, allora, da Cosa nostra e la sua scomoda, attuale, situazione. Una situazione che la vede sospesa tra una conflittuale fuoriuscita dall’era corleonese, il desiderio di un "ritorno al futuro" (di cui il rinsaldarsi del legame con le famiglie americane è il segnale più evidente) e i profondi intrecci con ambienti "esterni", che la tengono ancorata a un passato che non passa e che riverbera i suoi miasmi sulla scena politica, attraverso velati ricatti e pesanti interconnessioni.
Mentre i magistrati ricostruiscono uno scenario ingarbugliato che mette in luce gravi responsabilità istituzionali ma stenta nell’individuare i "colpevoli", dal mondo di Cosa nostra arrivano segnali inquietanti all’indirizzo di importanti personaggi politici. Fanno riflettere le frasi scambiate in carcere alcuni anni fa da Salvatore Riina con Alberto Lorusso, condannato per mafia, omicidio e spaccio. Non mancano le critiche ai suoi storici alleati – Matteo Messina Denaro in primis – sui quali aleggia il sospetto di tradimento e i giudizi negativi sull’ex presidente Silvio Berlusconi. Di estremo interesse le deposizioni di Vito Galatolo, rappresentante del mandamento dell’Acquasanta e capo di quello di Resuttana, che, divenuto collaboratore di giustizia nel 2014, racconta i dettagli dell’attentato programmato contro il giudice Nino Di Matteo parlando del coinvolgimento di personaggi esterni al contesto mafioso e riferendo delle visite in carcere di uomini dei servizi segreti italiani per indurre i detenuti a collaborare, all’insaputa della magistratura.
Ultime in ordine di tempo, le notizie sulle conversazioni intercettate nel carcere di Ascoli Piceno (tra il gennaio 2016 e l’aprile 2017) tra Giuseppe Graviano e il camorrista Umberto Adinolfi. Conversazioni che spaziano dalle tante anomalie sul periodo di detenzione in carcere e sul suo arresto a Milano, alle riflessioni sul nodo mafia politica e sulla trattativa. Particolarmente pesanti i riferimenti al ruolo di Silvio Berlusconi nella strategia stragista. Le sue parole suonano più che come una rivelazione, come un monito ai politici con i quali Cosa nostra ritiene di avere una "partita ancora aperta". Ritornano attuali le parole di Spatuzza sul "jolly" che Graviano avrebbe tenuto da parte per utilizzarlo al momento opportuno. Un "jolly" costituito dalle sue conoscenze e dal suo denaro.
Sono questi misteri a rendere opaco il volto odierno di una Cosa nostra, in crisi di leadership e attendista, in un quadro evolutivo aperto a diversi sviluppi e a scontri interni, dopo la morte di Totò Riina. Ancora spaccata sullo strategico dilemma del "ritorno degli scappati", incerta tra la modernizzazione richiesta dai mercati (che nel restituirle respiro e disinvoltura, ne modificherebbe l’identità criminale), il desiderio di permanere ancorata ai vecchi modelli operativi (sempre meno efficaci perché ormai noti alle forze dell’ordine che con facilità sanno contrastarli) e l’apertura verso nuove forme di ibridazione.
Cosa nostra dopo Riina: a Palermo il ritorno dall'America dei vecchi mafiosi
Anche all’interno della mafia siciliana la società sembra polarizzarsi: da una parte vi è l’élite ristrettissima dei più ricchi; dall’altra, lo scalpitante "popolo di Cosa nostra"
La struttura di Cosa nostra si presenta impietosamente attraversata dallo stesso processo di polarizzazione che ha registrato – a livello macro economico e in uno scenario mondiale – un allargamento impressionante della forbice sociale: i rapporti Oxfam segnalano la concentrazione della ricchezza nelle mani di sempre meno persone e l’impoverimento della rimanente popolazione mondiale. L’ultimo documento di gennaio 2019, relativo ai dati del 2018, mostra come l’un per cento della popolazione mondiale continui a detenere più ricchezza del restante 99 per cento e come nel mondo 26 individui posseggano ricchezze pari a quelle di 3,8 miliardi di persone. Anche all’interno della mafia siciliana sembra stia accadendo lo stesso processo: da una parte vi è l’élite ristrettissima dei più ricchi, di coloro che detengono conoscenze e rapporti con il "mondo di sopra", adusi al potere e laicamente impegnati a gestire affari a vari livelli; dall’altra, lo scalpitante "popolo di Cosa nostra", in difficoltà per i costi di mantenimento dei detenuti e costretto a confrontarsi con i continui arresti che – fino ad oggi – hanno reso complessa l’operazione di ricostituzione dell’organo centrale di governo, indispensabile per una gestione coordinata e di largo respiro delle attività dell’organizzazione. Di fronte alle importanti sfide dei mercati del crimine, occorre capire se Cosa nostra saprà rinnovarsi mantenendo la sua identità o se lascerà il posto a un nuovo attore sociale, più vicino al modello sperimentato dalle altre mafie.
Il futuro di Cosa nostra dipende dai nuovi capi che si alterneranno alla sua guida, orientando le decisioni strategiche, definendo la nuova "cultura organizzativa"
Ragionando per ipotesi e analizzando i dati disponibili, il successo del modello mafioso, esportato all’estero e in altre zone del malaffare, fa propendere per la sua sopravvivenza. Una sopravvivenza legata però alle scelte che verranno effettuate al suo interno. Il futuro di Cosa nostra dipende dai nuovi capi che si alterneranno alla sua guida, orientando le decisioni strategiche, definendo la nuova "cultura organizzativa"; indicando il cammino da percorrere, stabilendo il peso delle relazioni esterne e dei contatti internazionali. Così, se dagli scenari economici e politico-giudiziari torniamo alla situazione interna, il quadro che ci consegna l’attualità è quello di una lunga transizione parallela alla lunga detenzione di Totò Riina, formalmente ancora capo di Cosa Nostra fino al momento della sua morte, avvenuta nel novembre del 2017. L’arresto di Bernardo Provenzano e la sua morte nel luglio del 2016, provocano un pericoloso vuoto di leadership nell’organizzazione che, per gli indirizzi di politica criminale e gli investimenti economici, ha bisogno di deliberazioni collegiali, spingendola a cercare un difficile equilibrio tra fedeltà a Riina ed esigenze di sopravvivenza.
È quanto accade nel 2008, quando un provvedimento di fermo giudiziario contro 99 affiliati porta alla luce un piano di ricostituzione della Commissione, bloccato però dall'intervento delle forze dell'ordine. Il vuoto di potere non viene colmato neanche da Matteo Messina Denaro, figlio d’arte e rappresentante di Cosa nostra per l’intera provincia di Trapani. Consapevole del conflitto che provocherebbe una sua candidatura a guidare Cosa nostra, Messina Denaro ha finora declinato l’invito a sostituire Riina, adoperandosi per soluzioni di mediazione, concentrando la sua attenzione sugli investimenti economici nei settori innovativi delle energie alternative e del traffico dei rifiuti, avvalendosi di importanti relazioni internazionali e della vicinanza con ambienti della massoneria. Non va in porto neanche il più recente tentativo di ricostituzione della Commissione accompagnato dai ripetuti contatti tra Settimo Mineo (vicinissimo a Nino Rotolo) e Francesco e Tommaso Inzerillo (rispettivamente fratello e cugino di Totuccio Inzerillo); progetto conclusosi con gli arresti di Settimo Mineo prima e di Tommaso e Francesco Inzerillo poi.
Letizia Battaglia e Leoluca Orlando a confronto: "Le stragi di mafia ci hanno costretto a essere migliori"
Se poi allarghiamo lo sguardo dalla realtà alla rappresentazione – e sappiamo come i due livelli siano interconnessi nella delicata costruzione del consenso e nell’attivazione delle tecniche di neutralizzazione della violenza – il nostro scenario si arricchisce ulteriormente. Anche in questo caso, troviamo la stessa polarizzazione ben rappresentata nelle ultime relazioni della Direzione investigativa antimafia: dimidiate tra il desiderio di decretare la sconfitta (o il forte ridimensionamento) dell’organizzazione (esaltando i meriti delle attività di polizia) e il timore di provocare un calo dell’attenzione che renda più difficile – anche sul piano normativo e dell’allocazione delle risorse economiche – l’attività di contrasto. In questa oscillazione, però, la Direzione nazionale antimafia non spende una parola sulle stragi né sulle attuali vicende processuali (il processo Borsellino quatero il cd processo Trattativa) che, pur tra molte difficoltà, buchi neri e depistaggi, offrono, attraverso le prime sentenze, importanti spunti investigativi, mettendo in luce le dimensioni sistemiche di una rete di complicità criminali di cui Cosa nostra è stata ed è tuttora parte.
Mentre la stampa rilancia la notizia della riapertura delle indagini a Firenze su Silvio Berlusconi solo per raccontare la presa di distanza dell’ex premier dall’amico Marcello Dell’Utri (e questo nonostante la gravità delle ipotesi di reato), passano quasi di sfuggita le informazioni sull’apertura di un processo per calunnia a carico di due ex magistrati che indagarono sulla strage di via D’Amelio. Si affastellano senza una trama unitaria le (poche) notizie sulle indagini a carico di esponenti delle forze dell’ordine che gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino; si rincorrono, come se fossero nuove (per quanto se ne parlasse già all’indomani delle stragi) le indiscrezioni sulla presenza di figure esterne, di agenti dei servizi segreti libici, di una figura femminile sul luogo della strage, a Capaci. Il risultato è una grande confusione, una visione parziale e monca che non riesce a mettere insieme criticamente le due lame della stessa forbice.
È in questo scenario che viene applaudito il film su Tommaso Buscetta di Marco Bellocchio(Il Traditore, ndr), denso di divagazioni oniriche e di tinte drammatizzati; quasi dimentico della dimensione politica del fenomeno criminale che non si esaurisce certo in accordi occasionali tra esponenti mafiosi e potenti uomini politici, abitanti di mondi separati. Suscita, invece aspre polemiche la lucida analisi di Franco Maresco che nella sua ultima pellicola, La mafia non è più quella di una volta, conduce la cinepresa nel ventre molle di Palermo, tra il popolo dei diseredati, mettendo in luce le ambigue ibridazioni tra mafia e antimafia. Annega nel silenzio la quasi trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro; un silenzio interrotto soltanto dagli arresti dei suoi insidiosi fiancheggiatori, impegnati a ricucire le trame tra mafia e antimafia, confondendo le acque con la calunnia e le offese; esercitando un’attrazione “persuasiva” che attinge consensi dalle ingiustizie sociali, dal malcontento diffuso, dal clima di sfiducia verso le istituzioni, cui lo scenario sopra descritto contribuisce non poco.
Che ne è stato, allora, di Cosa nostra? Esiste ancora la mafia in Sicilia? Il conflitto e la polarizzazione di cui abbiamo parlato lasciano aperti gli interrogativi sulla sua sopravvivenza e sulla sua futura identità; una sfida da giocarsi attraverso un serio rinnovamento o una trasformazione più radicale che lasci il posto a un nuovo attore sociale. Difficile prevedere quanto accadrà poiché la posta in gioco è elevata e tante le variabili da considerare, dal momento che alcuni dei suoi capi stanno tentando di giocare il loro "jolly" nella partita per portare a galla le verità sulle stragi.
Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020
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