25 maggio 2020
La “reputazione” dell’Italia all’estero, a seguito di un’opinione pubblicata il 9 aprile su Die Welt, giornale tedesco, è diventata in questi mesi motivo di ampio dibattito. Il giornalista di Die Welt suggeriva una sfiducia radicata e diffusa per l’Italia nella questione coronavirus-Eurobond, dovuta alla presenza, in Italia, delle mafie che tutto divorano, soprattutto i fondi pubblici ed europei. Intellettuali, politici e accademici – inclusa chi scrive – si sono indignati e hanno risposto. Puntando l’indice alla Germania prima, all’Europa poi, si è detto che la mafia non è solo in Europa e che anche se da noi la mafia provasse – come quasi di certo farà – a mangiarsi i fondi, italiani o europei, qui in Italia abbiamo le giuste armi per controbattere. Perché noi la mafia la sappiamo riconoscere e la sappiamo combattere, più degli altri.
Questa polemica porta però a galla una serie di fumose approssimazioni sull’argomento ‘mafia all’estero’. Stereotipi sull’antimafia all’estero – anzi meglio, sull’assenza di un’antimafia all’estero – sono diventati quasi una questione ideologica. Una prima campana dice che l’Europa ignora la mafia, ma la mafia è ormai ovunque, quindi chi la ignora sembra quasi farlo apposta. Una seconda campana invece prova a farsi qualche domanda in più, a capire di quale mafia parliamo in effetti, dove sta e cosa fa questa mafia all’estero, se qualcosa fa. Ricercatori e giornalisti investigativi si occupano a tempo pieno, sul campo, di questi temi, in Germania, Svizzera, Australia, Canada.
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Ma, a seguire la seconda strada, si rischia di venir tacciati di eccessiva cautela e di apologia esterofila ingiustificata. Si viene tacciati di non conoscere il fenomeno mafioso quando si dice che in Australia o in Germania le polizie federali, l’Australian federal police (Afp) e la Bundeskriminalamt (Bka), conoscono la ’ndrangheta sui loro territori per nome, cognome e numero di scarpe. E che anzi la ’ndrangheta per le autorità australiane esiste dal 1964, quando la si identificò in maniera ufficiale come Onorata Società, prima che in Italia. Fu l’Italia, tra l’altro, fino agli anni ’70 del secolo scorso, a negare che la mafia australiana fosse mafia, visto che non era siciliana, nonostante i ripetuti appelli dall’Australia perché l’Italia li aiutasse a capire cosa accadeva all’interno delle loro comunità italiane. E si passa poi al Canada, che ha reso la ’ndrangheta priorità della polizia federale Royal Canadian Mounted Police (Rcmp) in seguito a una serie di operazioni tra Canada e Italia contro i clan calabresi del Siderno Group of Crime – come dimostra il fatto che il Canada è l’unico paese al mondo (oltre all’Italia) dove la ’ndrangheta è finita a processo come organizzazione criminale, dopo una serie di indagini della Rcmp insieme alle autorità italiane. Gli esempi ci sono e sono costantemente sotto gli occhi di chi voglia vedere. Si è dimostrato che le autorità estere non sono inattive nei confronti delle nostre mafie, anche se a volte lo fanno troppo tardi o comunque male per gli italiani. Ci si può chiedere, dunque, perché ciò accade.
L’appellativo ‘mafia’ ha in Italia un significato consolidato che pesa sulla comprensione del fenomeno all’estero, dove pensano debba essere italiana, gerarchica, spietata e glamourizzata
Sarà forse che anche dall’Italia arrivano nozioni confuse e contraddittorie su quello che sono le mafie? Come mi è stato spesso riferito dalle autorità canadesi e australiane, dall’Italia si inviano le richieste di estradizione spesso giustificate soltanto dalle ordinanze di custodia cautelare, lunghe quattrocento o anche duemila pagine e in italiano, senza alcuna chiarezza nelle richieste a monte.
E ancora, dall’Italia arrivano contemporaneamente spiegazioni – lezioni – su come la ‘ndrangheta sia un’organizzazione unitara, ma al tempo stesso, agli atti, le richieste di coordinamento transfrontaliero riguardano individui e clan molto diversi tra loro senza che si spieghi come questi si colleghino a un’idea unitaria di ‘ndrangheta. Un paese che non ha la stessa eredità giuridica e patrimonio giudiziario, come può riconciliare narrative contrastanti? Si dimentica spesso, infatti, che i sistemi giuridici non sono sempre basati sugli stessi principi e che, ad esempio, il reato di associazione a delinquere, in certe giurisdizioni, è in contrasto con lo stato di diritto perché si ritiene che possa ledere principi fondamentali quali l’individualità della responsabilità penale e la libertà di associazione.
Perché, invece di insistere che gli altri Stati debbano adottare una legislazione antimafia, non si prova a spacchettare il comportamento mafioso e a comprendere come usare le legislazioni di altri per arrivare a risultati simili? Il semplice policy-transfer in diritto penale (il trasferimento di conoscenze e disposizioni per creare nuove politiche penali in altri contesti, ndr) non può funzionare ovunque, insegna la storia del diritto, perché occorrono necessità storiche e sociali per arrivare a una legge che serva alle necessità locali. Servirebbe forse abbandonare se serve – e a noi italiani costa, simbolicamente – l’appellativo ‘mafia’? L’appellativo ‘mafia’ è un cultureme – ha un significato ormai consolidato, quasi moralizzato – che pesa sul diritto e sulla comprensione del fenomeno all’estero in quanto, all’estero, la parola rimanda a preconcetti su come la mafia debba essere (italiana, gerarchica, spietata, glamourizzata) e su cosa debba fare (droga, estorsione, corruzione). L’utilizzo di questa parola, all’estero, non è neutro abbastanza da poter essere assorbito con facilità in un corpo giuridico.
La ‘ndrangheta come viene vista, capita, combattuta in Italia, non è lo stesso fenomeno che si vede in altri Paesi
Bisognerebbe che si chiarisse, dall’Italia, a) quali sono i comportamenti mafiosi che all'estero creano il giusto sostrato perché la mafia si stabilizzi e b) quali sono le priorità che l’Italia richiede: una maggiore attenzione ai latitanti all’estero? Agli investimenti? O una maggiore attenzione a come ci si sposta dall’Italia al paese estero? Per fare questo bisognerebbe potenziare gli uffici di collegamento, e soprattutto, a livello narrativo, differenziare l’organizzazione criminale, in Italia, dalle attività e dalle strutture estere, quindi permettere un ufficio di collegamento a doppia specializzazione, da entrambi i paesi. Mi chiedo, inoltre, non sarà forse che ripetere all’infinito che la mafia è ovunque – che tutto è ‘ndrangheta in Europa, Germania, Canada, Australia - renda il fenomeno ancora più invisibile proprio in quei paesi che lavorano con sistemi giudiziari diversi, dove il costrutto legale e sociale della mafia non è stato, storicamente, come il nostro ed esistono altre priorità di ordine pubblico autoctone?
Come mi è stato riferito da diverse autorità canadesi, australiane ed europee, cercare la ‘ndrangheta – perché l’Italia avverte in continuazione che c’è – rischia peraltro di produrre una stigmatizzazione dei calabresi all’estero. Per evitarlo si cercano segni dell’organizzazione criminale che però, all’estero, non ha le stesse caratteristiche che ha in Italia. La ‘ndrangheta come viene vista, capita, combattuta in Italia, non è lo stesso fenomeno che si vede all’estero, dove i legami tra individui e famiglie sono più ibridi, le strutture più flessibili e diluite sul territorio, i meccanismi normativi dei gruppi adattati al luogo, i ‘regolamenti’ modificati da usi e costumi locali.
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E per finire, rimane da chiedersi perché mai quando le mafie italiane investono fondi, più o meno ripuliti, nell’economia legale in altri paesi, ci indignamo accusandoli di non prendere sul serio la mafia? Ogni paese amministra da sé risorse e decide priorità in base a scelte politiche ed economiche, all’allarme sociale e alle necessità del territorio. Se il danno di un investimento mafioso all’estero non è percepito, che sovranità abbiamo noi di sindacare soprattutto quando poi ci indigniamo se i conti in tasca vengono fatti a noi, come nel caso degli Eurobond? Non sarebbe forse più saggio cercare di spiegare e spiegarsi all’estero usando un linguaggio di comprensione reciproca, che tenga conto di diverse eredità giuridiche e di diverse necessità, anziché arroccarsi su posizioni che sono più morali che di sicurezza? Forse se guardassimo di più a come il nostro Stato ha depotenziato l’antimafia e ha tagliato le risorse proprio alle autorità che più necessitano di supporto – pensiamo al disastro delle carceri e pensiamo all’assenza di un vero e proprio processo antimafia, a doppio binario, che segua le indagini specializzate – ci indigneremmo anche di più e più a ragione.
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