1 novembre 2020
L'emergenza sanitaria Covid-19 ha confermato come i beni confiscati alle mafie siano a pieno titolo beni comuni: ville bunker ristrutturate come scuole, palestre e impianti sportivi come luoghi di sport per tutti, terreni dei boss come presidi di salute per soggetti fragili, cooperative sociali come esempi di lavoro anche durante il lockdown.
La commissione sui Beni pubblici, istituita al ministero della Giustizia nel 2007 e presieduta da Stefano Rodotà, propose una definizione di beni comuni molto ampia, definendoli "cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona". Tali sono sicuramente i beni confiscati, soprattutto dopo la legge 109 del 1996 voluta da Libera che ne ha previsto l’uso a fini sociali. Una convinzione che ha anche il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho: "I beni ritornano alla cittadinanza per essere inseriti in un circuito sano in cui è lo Stato-Comunità, in una delle sue prioritarie finalità di garanzia del bene comune, ad assegnare alla collettività il bene confiscato, per destinarlo a fini sociali". Anche quando producono reddito, come i terreni affidati a cooperative sociali che danno lavoro vero e pulito a giovani, a soggetti fragili e svantaggiati, agli esclusi, promuovendo il diritto al lavoro e all'integrazione dei più deboli, finalità tipiche dei beni comuni.
A Casal di Principe, feudo del clan dei Casalesi, presto saranno sei le ville confiscate ai boss che ora ospitano scuole. Un record assoluto in Italia
Tante volte abbiamo sentito parlare dei "beni confiscati di Libera": sbagliato. I beni tolti ai mafiosi sono beni pubblici, nel patrimonio dello Stato o degli enti locali che li possono assegnare per un determinato tempo a cooperative, associazioni, fondazioni, diocesi, parrocchie, ma solo per fini sociali.
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