Roma, 29 aprile 2024. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante un incontro a Palazzo Chigi (Foto da governo.it con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT)
Roma, 29 aprile 2024. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante un incontro a Palazzo Chigi (Foto da governo.it con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT)

Con premierato e autonomia, il governo Meloni spezza l'Italia

Con il premierato e l'autonomia regionale differenziata, il governo di Giorgia Meloni punta a cambiare volto alla Costituzione italiana nata dalla Resistenza. Il costituzionalista Francesco Pallante spiega in che modo la riforma delle autonomie delle regioni può danneggiare l'amministrazione, le finanze e i servizi pubblici

Francesco Pallante

Francesco PallanteProfessore di Diritto costituzionale all'Università di Torino

5 maggio 2024

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Con il premierato e l’autonomia regionale differenziata, il governo delle destre punta a cambiare volto alla Costituzione italiana nata dalla Resistenza. Il premierato mira a rovesciare la forma di governo: oggi dal voto per il parlamento dipende la formazione del governo; domani dal voto per il (capo del) governo dipenderà la formazione del parlamento. L’autonomia regionale differenziata mira a rovesciare la forma di Stato: oggi il principio fondamentale è l’uguaglianza nei diritti; domani il principio fondamentale sarà la differenziazione nei diritti (e senza previa perequazione). Se la prima è una revisione più agevolmente comprensibile, la seconda ha molti risvolti tecnici la cui complessità la rende più ostica da decifrare. Può essere d’aiuto il libro di Francesco Pallante, Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, Einaudi, Torino 2024, di cui pubblichiamo qui di seguito un estratto.

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La copertina del libro di Francesco Pallante, Spezzare l'Italia (Einaudi)
La copertina del libro di Francesco Pallante, Spezzare l'Italia (Einaudi)

Con l’autonomia regionale differenziata le quindici regioni ordinarie potranno richiedere e ottenere competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato.

L’elenco delle materie in cui, grazie a quella riforma, le regioni ordinarie potrebbero oggi ottenere nuove competenze, o aumentare quelle che già hanno, è impressionante: tale da far impallidire le pur ampie competenze delle regioni speciali. Volendo proporne un quadro ordinato si ottiene il seguente risultato:

  • diritti fondamentali quali la salute, l’istruzione (la scuola, l’università e la ricerca scientifica), il lavoro, la previdenza complementare, la giustizia di pace;

  • il paesaggio e i beni culturali;

  • la tutela dell’ambiente, i rifiuti, le bonifiche, la caccia;

  • la difesa del suolo, il governo del territorio, le infrastrutture, i porti e gli aeroporti, il rischio sismico, la protezione civile;

  • le acque demaniali, il servizio idrico, i laghi;

  • attività produttive quali il commercio con l’estero, l’agricoltura e i prodotti biologici, la pesca e l’acquacoltura, gli incentivi per la montagna, il sistema delle camere di commercio, gli istituti di credito, le politiche industriali e i fondi a sostegno delle imprese, le cooperative, la comunicazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia;

  • l’autonomia tributaria, le zone franche, il coordinamento della finanza pubblica regionale;

  • gli enti locali.

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Lo Stato centrale perde poteri

In tutte queste materie lo Stato potrà perdere quasi ogni ruolo, demandando le competenze in cui si articolano alle regioni. Per comprendere meglio cosa questo significhi, occorre considerare che ciascuna delle materie richiamate si compone, al suo interno, di una serie di funzioni, ognuna delle quali potrà essere oggetto di specifica richiesta regionale.

Prendiamo il caso della sanità. Le regioni intenzionate a incrementare le proprie competenze in quest’ambito potranno volersi occupare – e, in effetti, vogliono potersi occupare – dell’organizzazione generale del servizio sanitario regionale (Ssr), della struttura amministrativa interna delle Asl e degli altri enti che operano nell’ambito del Ssr, dell’offerta sanitaria ospedaliera e territoriale, della definizione del fabbisogno del personale secondo le diverse tipologie contrattuali (quanto personale a tempo indeterminato, quanto a tempo determinato, quanto in convenzione), delle scuole di specializzazione e dell’impiego anticipato degli specializzandi (e, in caso di necessità, anche dei semplici laureati), della regolamentazione della libera professione del personale medico (che coinvolge la delicatissima questione dell’attività svolta privatamente a pagamento dai medici pubblici), dell’integrazione delle condizioni contrattuali dei dipendenti della sanità regionale, della compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria tramite i ticket, dell’istituzione di fondi finanziari integrativi, della programmazione degli investimenti in edilizia e tecnologia sanitarie, della remunerazione delle prestazioni acquistate dai privati, della definizione dell’equivalenza terapeutica di farmaci e vaccini, della loro distribuzione ed erogazione.

Insomma: la configurazione del servizio sanitario e il suo finanziamento, la definizione delle modalità di erogazione delle prestazioni, la disciplina del rapporto di lavoro del personale dipendente, gli interventi d’investimento in strutture e strumentazioni, il rapporto con i privati, i farmaci. Di fatto, tutto ciò che riguarda l’amministrazione sanitaria e la tutela del diritto alla salute e che oggi, in parte significativa, ancora ricade nella competenza dello Stato.

La duplicazione delle competenze

"Ciascuna regione potrà richiedere funzioni diverse da quelle che richiederanno le altre (...) Il passaggio delle funzioni dallo Stato alle regioni non comporterà il semplice passaggio di titolarità delle risorse umane, strumentali e finanziarie dall’uno alle altre, bensì la loro duplicazione"

Scomponendo l’insieme delle materie poc’anzi elencate (la scuola, il lavoro, il paesaggio, il sostegno alle imprese, eccetera) nelle funzioni in cui ciascuna si articola, si ottiene che le regioni potranno vedersi attribuite centinaia di nuove competenze in materie tanto importanti da renderle, di fatto, simili a Stati semi-indipendenti.

Il punto maggiormente critico non è, come pure si potrebbe pensare, l’enorme quantità di poteri che potranno spostarsi da Roma ai territori, ma il fatto che ciascuna regione potrà richiedere funzioni diverse da quelle che richiederanno le altre – in ciò sta la differenziazione dell’autonomia regionale –, lasciando le restanti funzioni alla competenza dello Stato. Ne segue che quest’ultimo si ritroverà ad esercitare determinate funzioni in alcune regioni soltanto, nell’ambito di un quadro complessivo che, molto probabilmente, non vedrà due regioni titolari esattamente delle medesime competenze.

Risultato: diversamente da quel che solitamente si afferma, il passaggio delle funzioni dallo Stato alle regioni non comporterà il semplice passaggio di titolarità delle risorse umane, strumentali e finanziarie dall’uno alle altre, bensì la loro duplicazione: nella capitale rimarranno, infatti, gli apparati necessari a esercitare le funzioni nelle regioni che non le richiederanno, mentre le regioni che lo faranno si doteranno in proprio degli apparati di cui avranno bisogno.

Autonomia differenziata, lo Stato non deve arrendersi

Un coordinamento difficile e molta confusione

"Sarà come avere una pletora di micro-pubbliche amministrazioni statali, ciascuna delle quali chiamata ad agire su un territorio suo proprio, differente da quello di tutte le altre"

Per lo Stato si porrà, inoltre, una delicata questione di coordinamento: i rami della pubblica amministrazione incaricati di seguire le diverse funzioni avranno, infatti, ambiti d’azione territoriale diversificati, potendo accadere, per esempio, che l’equivalenza farmaceutica risulti statale in otto regioni, ma solo in sei lo rimanga anche la distribuzione e l’erogazione dei farmaci. Cosa accadrà, dal punto di vista organizzativo, alla pubblica amministrazione centrale quando tale situazione si riprodurrà non due o tre, ma centinaia e centinaia di volte? Sarà come avere una pletora di micro-pubbliche amministrazioni statali, ciascuna delle quali chiamata ad agire su un territorio suo proprio, differente da quello di tutte le altre. Non è necessario essere Cassandra per profetizzare la confusione che ne scaturirà.

Con l'autonomia regionale, più enti e più spesa pubblica

Strettamente collegate saranno le ricadute negative sulla spesa pubblica, a causa non soltanto dalla moltiplicazione degli uffici burocratici, ma soprattutto – come denunciato dall’Ufficio parlamentare di bilancio – dalla perdita delle economie di scala che la frammentazione degli ambiti territoriali degli interventi inevitabilmente porterà con sé.

È chiaro, infatti, che la gestione centralizzata di una competenza riduce i costi (di struttura, di personale, di organizzazione, di beni strumentali) rispetto alla sua gestione diffusa; ed è altresì chiaro che l’omogeneità degli ambiti territoriali dell’intervento pubblico consente economie di scala trasversali ai settori gestibili unitariamente (per esempio, tutto ciò che attiene ai farmaci può essere ricondotto, pur riguardando funzioni differenti, a una sola struttura amministrativa).

La differenziazione delle competenze tra le regioni renderà impossibile, o comunque molto complicato, realizzare tali economie, con ricadute particolarmente negative per quei non rari casi in cui la gestione di una competenza richiede l’acquisto di beni o servizi da fornitori privati esterni, che potranno più agevolmente far valere la propria forza contrattuale nei confronti di controparti pubbliche dalle dimensioni circoscritte e disomogenee.

Insomma: aumenteranno i costi e, nel complesso, peggioreranno i servizi.

© 2024 Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino

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