4 agosto 2020
Quattro milioni e 860 mila, sarebbe questo il numero di microplastiche che, stando alle stime del programma delle Nazioni unite per la protezione dall’inquinamento del Mediterraneo (Unep/Map), galleggiano su ogni chilometro quadrato di superficie del nostro mare, in particolare nelle aree di maggiore accumulo. Ma in realtà è difficile quantificare la presenza di questo contaminante emergente, causato dalle attività umane, e impossibile da rimuovere completamente. Il loro impatto sugli organismi marini è alto, mentre sono ancora da studiare gli effetti negativi dovuti al potenziale trasferimento di questi inquinanti dalle specie marine all’uomo.
Su ogni chilometro quadrato di superficie del Mediterraneo galleggiano quattro milioni e 860mila microplastiche
Con il temine microplastiche ci si riferisce a frammenti o particelle di plastica con dimensione inferiori ai cinque millimetri. Vengono comunemente classificate in due tipologie, in base alla loro origine. Le microplastiche definite primarie vengono rilasciate nell’ambiente direttamente sotto forma di piccole particelle e rappresentano tra il 15 e il 31 per cento di quelle presenti nell’oceano. Secondo un rapporto commissionato dalla Commissione Europea, i quantitativi maggiori di microplastiche primarie provengono dall’abrasione degli pneumatici (da 25mila a quasi 60 mila tonnellate all’anno) e dalla perdita di microsfere di plastica vergine, cioè quella prodotta usando materie prime (da 24mila a quasi 50mila tonnellate annue). Dai tessuti arrivano dalle 7mila a circa 50 mila fibre sintetiche, mentre dai cosmetici dalle 2mila a circa 9mila tonnellate all’anno.
Le microplastiche secondarie, invece, rappresentano tra il 68 e l’81 per cento di quelle presenti nell’oceano, e derivano dalla disgregazione dei rifiuti in plastica di grandi dimensioni abbandonati nell'ambiente, a causa principalmente della fotodegradazione e dell’azione meccanica delle onde e delle correnti: fanno in modo che il pattume si frammenti in particelle sempre più piccole, fino a diventare microplastiche.
Le prime evidenze scientifiche della loro presenza in ambiente marino sono dei primi anni Settanta, ma adesso, grazie agli studi che si stanno portando avanti per conoscere l’entità della contaminazione nei nostri mari e quali conseguenze può avere nelle specie marine, sta diventando un problema noto anche a un pubblico ampio. La prospettiva che questi inquinanti possano arrivare nei nostri piatti fa di certo aumentare l’attenzione sul tema, anche se si tratta di un problema ancora aperto.
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Gli effetti della presenza di microparticelle di plastica nei sistemi acquatici sono ancora oggetto di studio ma preoccupanti abbastanza perché il rapporto Frontiers 2016 dell’Unep inserisca l'inquinamento da microplastiche tra le sei emergenze a livello mondiale che minacciano l’ambiente.
Questi inquinanti contengono sostanze tossiche che possono causare gravi danni alla salute degli organismi marini
I motivi sono diversi. Vista la loro dimensione minima, queste particelle possono con facilità entrare in contatto con gli organismi marini attraverso le branchie, l’ingestione o gli apparati filtranti. Inoltre, le microplastiche sono vettori di sostanze tossiche, quali additivi e composti tossici persistenti, che vengono trasportate all’interno degli organismi. Durante la produzione industriale, infatti, alla plastica vengono spesso aggiunti solventi, diluenti, stabilizzanti, agenti ignifughi e plastificanti, tra cui ftalati, idrocarburi policiclici aromatici e ritardanti di fiamma. Una volta penetrate nell’organismo, alcune di queste sostanze possono causare gravi danni alla salute dell’essere vivente in cui sono finite, con ripercussioni sul suo apparato respiratorio e sul sistema riproduttivo. Oltre a questo è necessario considerare che in mare la plastica si comporta come una spugna con una elevata capacità di assorbimento delle sostanze inquinanti già presenti in acqua. E, come dimostrato nelle ultime ricerche, essa viene colonizzata da microorganismi, potenzialmente anche virus e batteri.
Ma se l’impatto delle microplastiche, e in generale dei rifiuti dispersi in mare, sugli organismi marini è alto e ben documentato, quello legato al trasferimento dei detriti plastici dallo stomaco dei pesci ad altri tessuti, e di conseguenza all’essere umano, è ancora da chiarire. Come già dichiarato dall’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), non ci sono ad oggi evidenze scientifiche di effetti negativi legati al rischio di assunzione di specie ittiche che hanno ingerito plastica.
La maggior parte degli studi condotti finora si è concentrata sulle microplastiche presenti negli stomaci degli organismi marini. Ma i tratti gastrointestinali di molte specie commestibili vengono eliminati prima del loro consumo e l’assorbimento di microplastiche da molluschi e piccoli filtratori non è paragonabile all’esposizione di microplastiche proveniente da altre fonti. Per valutare gli effetti negativi dovuti al potenziale trasferimento di questi inquinanti dalle specie marine all’uomo sarebbe, invece, necessario analizzare anche altre componenti, come campioni ematici e soprattutto tessuti muscolari. Questi ultimi potrebbero concentrare gli inquinanti trasportati dalle microplastiche che vengono prevalentemente assunti dalla specie umana.
A questo proposito, esistono progetti dedicati ad approfondire lo studio e la mitigazione dell’impatto delle microplastiche in mare. Tra questi, Plastic busters mpas e Common (Coastal management and monitoring network for tackling marine litter in Mediterranean sea), che vedono impegnate l’Università di Siena e Legambiente, insieme ad altri.
A livello di ricerca scientifica, grazie a Plastic busters mpas sono stati messi a punto dei protocolli per valutare non solo la presenza di microplastiche ingerite, ma anche quella di additivi trasportati e dei loro effetti ecotossicologici. Protocolli che verranno estesi anche a enti di ricerca e università di paesi extra-europei, come Libano e Tunisia, grazie al progetto Common. L’obiettivo è a armonizzare le tecniche di indagine per avere uno stesso metodo e risultati confrontabili. Nello specifico triglie, sardine, cozze e pesci boga sono le lenti degli scienziati per valutare non solo la presenza e l’impatto dei rifiuti marini sulla biodiversità, bensì anche le possibili ricadute sulla salute umana. Sono tra le specie più diffuse – e pescate – del Mediterraneo e anche per questo considerate ottime sentinelle della qualità del mare. Un altro indicatore ambientale è la tartaruga marina Caretta Caretta, che è stata scelta dai ricercatori per studiare la quantità e la dinamica della distribuzione e degli impatti delle plastiche nel Mediterraneo, per via dell’ampia distribuzione geografica della specie, la presenza in differenti habitat e la caratteristica di ingerire i rifiuti marini.
Il problema dei rifiuti in mare richiede soluzioni condivise e a più livelli, che coinvolgano la politica, le aziende e i cittadini
Importanti anche le azioni politiche portate avanti dai due progetti, che ambiscono a migliorare la gestione dei rifiuti nei paesi coinvolti, attraverso un approccio partecipativo efficace che coinvolge tutte le parti interessate: autorità locali, cittadini, i pescatori e i centri di recupero per tartarughe marine.
Il problema dei rifiuti in mare richiede soluzioni condivise e a più livelli. Le amministrazioni devono migliorare la gestione dei rifiuti, le aziende devono investire nella ricerca di nuovi materiali e prodotti più sostenibili, ma una parte importante sta anche a noi cittadini. Innanzitutto nel prevenire la dispersione dei rifiuti nell’ambiente, smaltendoli in modo corretto, ma soprattutto nel ridurli, compiendo scelte più consapevoli.
Dal punto di vista politico l’Italia è tra i paesi più virtuosi, avendo posto il bando alle buste di plastica nel 2013 in favore di quelle biodegradabili e compostabili, quello ai bastoncini cotonati per la pulizia delle orecchie in plastica nel 2019, uno dei rifiuti maggiormente rinvenuti sulle coste italiane ed europee, e quello alle microsfere di plastica nei cosmetici, attivo da gennaio 2020. Molto resta ancora da fare, il prossimo passo sarà un virtuoso recepimento della direttiva europea Sup (Single use plastic, 2019/904), che vieta l’impiego di articoli di plastica monouso come piatti e posate, previsto entro il luglio 2021.
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