(Foto di The Humantra da Pexels)
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Negli stupri di gruppo in Calabria, la convergenza tra cultura mafiosa e patriarcato

Gli stupri di gruppo a Oppido Mamertina e Seminara, in Calabria, che coinvolgono giovani di famiglie di 'ndrangheta pongono un problema di analisi: che distanza c'è, se c'è distanza, tra il patriarcato 'generico' e il patriarcato mafioso?

Anna Sergi

Anna SergiProfessoressa in Criminologia, University of Essex (Uk)

20 maggio 2025

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I giornali li chiamano ‘branchi’ i gruppi di ragazzi, spesso molto giovani, che stuprano minorenni. Come ci ricorda Rudyard Kipling, “la forza del branco è il lupo, e la forza del lupo è il branco”. I lupi, si sa, sono cacciatori e fanno più paura tutti insieme perché si aizzano l’un l’altro. Non fa eccezione il gruppo finito a processo per lo stupro collettivo di due vittime minorenni di Oppido Mamertina e Seminara, nella provincia di Reggio Calabria tra la Piana di Gioia Tauro e l’Aspromonte. Nel 2025 il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Palmi ha inflitto pene dai 5 ai 13 anni nei confronti di sei imputati e ne ha assolti altri sei. Nel 2022 un’inchiesta aveva rivelato le violenze sessuali di gruppo, riprese con i cellulari e materiale poi condiviso in varie chat. Tra i vari giovani del ‘branco’ alcuni erano all’epoca minorenni, e alcuni, la maggior parte dei condannati, erano (sono) rampolli di famiglie vicine alle ‘ndrine. 

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I paesi contro le giovani vittime degli stupri

La verità scomoda è che la cultura patriarcale locale e la cultura patriarcale mafiosa sono molto più vicine di quanto non si voglia ammettere. E quando questa cultura patriarcale convergente si manifesta nel cosiddetto branco, alcuni in paese si trovano ad assomigliare più al branco che alla vittima

Anche in questo caso, com’era successo in passato sempre in Calabria, gente del paese e famiglie intere si sono scagliate contro le giovani vittime. Nel caso di una delle vittime sono state disposte misure restrittive della libertà anche contro la nonna e lo zio: avevano cercato di zittire la nipote, ricorrendo anche alla violenza fisica. Come nei casi di Anna Maria Scarfò a San Martino di Taurianova nel 2002 e di Fiammetta (nome di fantasia) a Melito di Porto Salvo, sempre nel Reggino, gente del paese ha accusato le vittime di aver attirato l’attenzione dei media, di aver di fatto tradito la comunità, e in sostanza di essersela andata a cercare. Si è scritto, ad esempio, di come la vittima Clelia (nome di fantasia) e la sua famiglia non potessero più vivere a Seminara perché il paese le aveva voltato le spalle dopo gli arresti. Sicuramente c’è paura di andare contro alle famiglie mafiose

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Parlare di branco fornisce un alibi ai responsabili 

Partiamo col dire che parlare di branco è fuorviante: da una parte aiuta a delegittimare dalla responsabilità individuale; dall’altra parte, dietro la parola ‘branco’, si cela la possibilità di ridurre tutto a una spinta, un raptus primitivo, fisico, dove il dominio e l’aggressione sono connessi al desiderio sessuale incontrollabile, quasi fosse per natura. I raptus non esistono, e gli uomini non sono – non dovrebbero essere – lupi guidati da fame e desiderio. Usare la parola branco fornisce un alibi ai mafiosi o ai figli dei mafiosi, che finiscono per disperdersi nel gruppo laddove, per fini analitici, la loro posizione è diversa. Si chiede alle vittime di essere eroine contro questa natura predatoria dell’uomo, e le si flagella però quando lo sono perché osano sfidarne la mascolinità. Quando ci sono poi figli di mafiosi nel gruppo, si fa fatica a capire l’enormità e la rivoluzionaria forza che le vittime devono avere non solo per denunciare, ma per mettersi contro il sistema mafioso. Ma le vittime – seppur centrali in qualunque considerazione sulla violenza di genere – non sono il mio focus. Il mio focus qui è il contesto – il paese – e il gruppo di ragazzi che in questo contesto viene protetto.

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Cosa dicono le ricerche sugli stupri collettivi? 

Nei casi calabresi che coprono un arco di oltre vent’anni e che somigliano ad altri casi in Italia, ci sono delle costanti che è impossibile non notare, dalla giovane età della maggior parte degli autori dello stupro all’appartenenza di alcuni di essi a contesti di ‘ndrangheta. Ci spiega la ricerca – ad esempio quella di Chambers, Horvarth e Kelly già nel 2010 – che negli stupri collettivi la giovane età può contribuire a una mancanza di empatia e a una maggiore suscettibilità a comportamenti di gruppo laddove il desiderio di affermazione sociale e di accettazione sovrasta il senso di responsabilità individuale. Inoltre, la ricerca di Harkins e Dixon nel 2013 ci dice anche che nel gruppo che stupra c’è qualcuno che mantiene il comando, qualcuno che fa da leader, e che norme culturali, credenze, miti patriarcali, valori personali e sociali del contesto di riferimento giocano tutti un ruolo.

In altre parole, se un ragazzo cresce in contesti di ipermascolinità che esaltano in vario modo il dominio maschile e la fragilità femminile questo ragazzo internalizzerà questi valori e cercherà altri che li abbiano come lui internalizzati. Non tutti internalizzano ipermascolità e dominio maschile allo stesso modo, ma qualcuno di quelli che lo farà guiderà il gruppo; ci sarà chi lo farà sentendosi in sintonia con questi valori; c’è chi lo farà per conformità; c’è chi lo farà in cerca di accettazione sociale. E qui arriviamo al nodo dirimente. Perché oltre all’internalizzazione di certi disvalori, e ovviamente al contributo che certe esposizioni sui social network possono avere su questa internalizzazione, quando siamo in contesti di ‘ndrangheta, questi disvalori circolano anche come tratti della pedagogia mafiosa.

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Pedagogia mafiosa, pedagogia nera 

Si tratta di pedagogia nera, a volte dai chiari disvalori (...) e a volte dai valori ambigui, cioè valori di per sé neutri o anche positivi che però vengono manipolati

La sottocultura ‘ndranghetista, infatti, ha cristallizzato una serie di dogmi: questi dogmi diventano valori che vengono inculcati ai bambini in famiglie “onorate” (cioè famiglie che fanno parte della ‘ndrangheta e hanno pertanto aderito all’onorata società, che di onorato ovviamente non ha nulla). Si tratta di pedagogia nera, a volte dai chiari disvalori – la vendetta, l’esaltazione della violenza come prestanza fisica, il ripudio della fragilità come debolezza, l’esibizione della ricchezza materiale come forza – e a volte dai valori ambigui, cioè valori di per sé neutri o anche positivi che però vengono manipolati per arricchire il consenso e le tasche dei clan: l’onorabilità (intesa come diritto alla vendetta), il rispetto degli anziani e della famiglia (a discapito di tutto il resto), la venerazione per le donne (finché rimangono modeste e onorabili), l’esibizione della forza maschile come protezione (intesa come controllo), l’importanza della stabilità materiale per la sicurezza (intesa come avidità).

In rapporto a questi valori, soprattutto quelli ambigui, troviamo quel fenomeno che nei miei ultimi studi chiamo “the mafia cultural drift”, cioè il processo di convergenza fra la cultura del mafioso e quella di chi mafioso non è. Il concetto di drift, traducibile come deriva, è un concetto di criminologia classica risalente al lavoro seminale di David Matza e Gresham Sykes nel loro saggio A Theory of Delinquency (1957) e si applica tanto alle convergenze tra delinquenti e onesti. La teoria si applica anche a quei comportamenti propri delle vittime che cercano di minimizzare il danno subito per uniformarsi a quello che il contesto ha loro insegnato.

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La deriva tra valori patriarcali e della ‘ndrangheta

Visto il fenomeno – lo stupro di gruppo in contesto di ‘ndrangheta – si tratta di capire come valori patriarcali ‘generici’ drift – vadano alla deriva – verso valori patriarcali di ‘ndrangheta e viceversa. Detto in altro modo, fino a che punto i valori patriarcali mafiosi – la posizione di dominio dell’uomo nella famiglia, l’esaltazione della violenza come forza, la venerazione (finta) della donna fintanto che è modesta e onorabile, l’esibizione della ricchezza e del possesso dei beni materiali, per dirne alcuni – convergono con i valori patriarcali dei paesi dove questi clan esistono? E fino a che punto quegli stessi valori patriarcali che minimizzano l’oggettivizzazione della donna sotto lo sguardo desiderante dell’uomo e imputano le colpe alla ragazza che si veste o si atteggia in un certo modo e che “se la va a cercare”, sono espressione di una deriva culturale mafiosa? Da quale momento in poi si nota la convergenza culturale che spiega come mai la gente del paese, anche se non appartenenti all’onorata società, assomigli più a chi stupra che a chi viene stuprata? Ovviamente la deriva non è uguale per tutti, va per gradi. C’è chi – avendo certi valori – ha ben chiare le distanze dalla mafia, e chi invece è pericolosamente vicino al negazionismo o alla neutralizzazione del danno mafioso. C’è anche chi, da vittima, ipoteticamente sceglie di non denunciare: i suoi valori, quei valori che le permettono di vivere nel contesto di riferimento, le permetteranno di neutralizzare e minimizzare quel che le è stato fatto.

La presenza del ‘figlio del boss’ nello stupro collettivo può essere trainante: può fornire aspettativa di impunibilità e fomentare così il desiderio degli altri nel gruppo di affermare il proprio potere tramite violenza. La presenza del figlio del boss serve anche a legittimare gli altri sulla base di una deriva di valori condivisi oltre l’educazione mafiosa: la forza bruta, la mascolinità e il possesso forzato di ciò che ‘attira’. Se insieme al figlio del boss ci sono il figlio di un poliziotto o di un professionista, questa è la prova della deriva culturale in atto: il figlio del mafioso è espressione della cultura patriarcale di stampo mafioso, ma la sua vicinanza agli altri, che figli di mafiosi non sono, è segno che cultura patriarcale ‘generica’ e cultura patriarcale mafiosa convergono e che l’una influenza l’altra. 

La convergenza riguarda anche i paesi

La questione degli stupri collettivi in Calabria non è “solo” un problema di violenza di genere, ma è un problema di violenza di genere amplificato dalla deriva culturale in atto dal patriarcato generico al patriarcato di mafia

La convergenza, la deriva, si vede anche nella reazione del paese i cui gli stessi valori patriarcali portano a colpevolizzare la vittima e a simpatizzare col gruppo di stupratori, “bravi ragazzi” o “troppo giovani” o “vittime del sistema”: questo succede quando una fetta di popolazione ha e impartisce dei valori che sono sovrapponibili, a diverse gradazioni, ai valori che la mafia insegna ai suoi. 

Chi pensa che le ragazzine debbano vestirsi modestamente per non ‘cercarsela’ e che se succede loro qualcosa è perché hanno “provocato”, non è così distante dallo ‘ndranghetista che insegna alla figlia a essere onorata e onorabile – quindi modesta e appetibile come donna da sposare – e al figlio a essere pronto a “correggere” la sorella laddove questa sbagli, e a ristabilire l’onore della famiglia qualora avvenga qualcosa alle donne di casa. I due approcci si manifestano anche insieme in famiglie che hanno componenti mafiose e componenti meno coinvolte nell’organizzazione criminale. Detta da un’altra prospettiva, i valori patriarcali di ‘ndrangheta non avrebbero presa sui territori se non ci fosse almeno in parte una deriva culturale in atto e una convergenza coi valori patriarcali genericamente mantenuti dalla società in questione. 

La convergenza tra i valori di ‘ndrangheta e quelli della comunità crea un terreno ancora più fertile di altri per la violenza di genere, soprattutto quella collettiva su vittime minorenni, favorendo la protezione degli aggressori e il silenzio a scapito delle vittime e della loro voce necessaria alla riaffermazione del sé ferito. È imperativo affrontare questa deriva culturale senza vergogna o ipocrisia, per spacchettare le origini delle narrazioni che giustificano la violenza e così promuovere un cambiamento profondo nelle dinamiche sociali. 

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