Nelle carceri, anche i medici sono abbandonati. A perdere è il diritto alla salute

"Il carcere deve garantire diritti", ha ricordato più volte Mattarella. In 29 strutture su 85 la copertura medica h24 non è garantita. Le ore di supporto psicologico e psichiatrico sono scarse e il personale sanitario si sente abbandonato

Andrea Oleandri

Andrea OleandriResponsabile comunicazione di Antigone

24 luglio 2025

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“Il carcere deve garantire diritti, non toglierli”. Più volte, nel corso degli ultimi mesi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato istituzioni e opinione pubblica sul dovere di assicurare condizioni di detenzione dignitose. L’ha fatto nel messaggio per la fine dell’anno, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, in incontri con la magistratura e il volontariato. Tra i diritti più compromessi in carcere, c’è quello alla salute. E se, come stabilisce l’ordinamento penitenziario, la sanità penitenziaria è parte integrante del Servizio sanitario nazionale, la realtà quotidiana mostra invece quanto il carcere sia, ancora una volta, l’ultimo anello della catena.

Assistenza sanitaria alcune volte inferiore rispetto a quella del mondo libero. Tempi di attesa lunghissimi per visite specialistiche. Medici e infermieri in affanno per gli scarsi numeri, per la fragilità della popolazione di cui si occupano, che vedono spesso il carcere come un luogo di passaggio nella loro carriera, preferendo poi un impiego più stabile, dignitoso e meno usurante. Un fatto questo che emerge dalle testimonianze raccolte dallo sportello di informazione legale che Antigone ha nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, dove è stato rilevato come il medico più anziano in organico lavori in istituto da soli sette anni.

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I numeri che raccontano del problema

Psichiatri disponibili per 7 ore settimanali ogni 100 detenuti, gli psicologi per 22 ore. Una misura insufficiente, considerando che oltre il 14 per cento dei detenuti soffre di disturbi psichiatrici gravi

Se si guarda al sistema penitenziario italiano è difficile non notare la distanza tra diritto e realtà. Le carceri italiane sono in sofferenza: sovraffollamento, carenza di personale, condizioni strutturali e materiali troppo spesso inadeguate. E, anche se meno visibile, l’accesso alle cure sanitarie resta una delle problematiche più gravi, sia che si parli di salute fisica, sia di quella mentale.

A testimoniarlo ci sono anche i numeri. Quelli che ci ricordano come nei primi sette mesi dell’anno siano morte in un istituto penitenziario 141 persone, di queste 45 si sono suicidate, mentre le altre 96 sono morte per cause diverse, che hanno a che fare con malattie o problematiche di salute (dati raccolti da Ristretti Orizzonti, aggiornati al 25 luglio 2025, disponibili qui).

Poi ci sono i numeri che ci raccontano di una presenza scarsa del personale medico. Sono quelli raccolti dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone (link). Quella degli psichiatri, ad esempio, ammonta in media a poco più di sette ore settimanali ogni cento detenuti. Gli psicologi garantiscono invece circa 22 ore settimanali ogni cento detenuti. Questo significa che ogni persona detenuta può accedere a una manciata di minuti settimanali di supporto psicologico o psichiatrico. Una misura del tutto insufficiente, specie considerando che si stima che oltre il 14 per cento dei detenuti soffre di disturbi psichiatrici gravi, e che oltre il 21 per cento assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici, antidepressivi e il 45 per cento sedativi o ipnotici.

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Ancora c’è il dato della copertura medica h24, non garantita in 29 delle 85 carceri vistate da Antigone nell’ultimo anno. Questo significa che se una persona detenuta si dovesse sentire male durante la notte non troverebbe alcun supporto medico. Una situazione di grave mancanza di assistenza anche a fronte del fatto che la notte, spesso, le carceri sono presidiate solo da pochi agenti (a causa della carenza negli organici) e quindi intervenire prontamente, con una traduzione in ospedale, è cosa tutt’altro che semplice.

C’è infine un ulteriore dato emblematico, quello che rileva l’osservatorio di Antigone secondo cui oltre il 56 per cento degli istituti visitati non dispone di un sistema di cartelle cliniche informatizzate: un dato che, da solo, basta a fotografare l’arretratezza del sistema.

Il carcere riflette, amplificandole, le diseguaglianze sociali e territoriali del Paese. E anche in termini di accesso alla sanità, il carcere finisce per dipendere dalle risorse (e dalle volontà) delle Aziende sanitarie locali. Se la Asl è in affanno, lo è anche il carcere di quel territorio. Ma mentre fuori si può cambiare medico, spostarsi, cercare alternative (anche attraverso visite specialistiche private), dentro non si può fare nulla. E l’assistenza, in molti casi, semplicemente non arriva o ritarda mesi ad arrivare. Anche laddove la tempestività di una diagnosi può salvare una vita.

Leggi la rubrica di Antigone, Notizie dal carcere

Una riforma che non aiuta il diritto alla salute

Anche il personale sanitario penitenziario che spesso è lasciato solo, privo di tutele contrattuali, di prospettive di carriera, di supporto"

A fronte di questo scenario, il problema non è solo numerico. È anche (e soprattutto) strutturale. Il decreto Legge 22 aprile 2023, n. 44, convertito con la legge 21 giugno 2023, n. 74 e regolato dal Dpr 13 novembre 2024, n. 217, ha istituito la carriera dei medici nel Corpo di polizia penitenziaria, prevedendo accesso con concorso, formazione e specifiche regole professionali.

Tuttavia, contrariamente a quanto ipotizzato, non esiste un divieto legale che imponga l’impossibilità oggettiva di svolgere contemporaneamente incarichi di medico di medicina generale convenzionato con il Sistema sanitario nazionale. Il Dpr stabilisce che ai medici del Corpo non si applicano le incompatibilità ordinarie, sebbene resti vietato operare a titolo oneroso nei confronti del personale penitenziario o nei procedimenti medico‑legali.

In tal modo, la riforma non riduce automaticamente la platea dei medici disponibili per il lavoro in carcere, anche se restano ostacoli strutturali: vincoli orari, protocolli interni, formazione obbligatoria e una scelta professionale che spesso vede favorire l’attività come medico di base per la maggiore stabilità economica e organizzativa.

Il risultato è un paradosso: mentre il presidente della Repubblica invita a investire sui percorsi di reinserimento e su un carcere che rispetti i diritti fondamentali, il sistema sanitario penitenziario è potenzialmente sempre più fragile. E quando la salute manca, tutto il resto viene meno. L’impossibilità di curarsi non riguarda solo i bisogni clinici: ha un impatto sulla qualità della vita, sulla capacità di costruire relazioni, sulla gestione della pena.

Il carcere riflette e amplifica le diseguaglianze sociali e territoriali del Paese. E anche in termini di accesso alla sanità, il carcere finisce per dipendere dalle risorse (e dalle volontà) delle Aziende sanitarie locali. Se la Asl è in affanno, lo è anche il carcere

Il tema è tanto urgente quanto invisibile anche se riguarda migliaia di persone. Le persone detenute. Ma anche il personale sanitario penitenziario che spesso è lasciato solo, privo di tutele contrattuali, di prospettive di carriera, di supporto. Sovente, nei colloqui con il personale medico nelle visite di monitoraggio che Antigone svolge nelle carceri italiane ci si sente ribadire il senso di abbandono che si vive da parte delle Asl competenti. Un sistema così non regge. E a rimetterci non è solo il principio di legalità, ma la salute pubblica nel suo insieme.

Perché il carcere – come ricordava Mattarella – è parte della Repubblica. E nessuna democrazia può dirsi tale se accetta che in un luogo dello Stato ci siano cittadini meno degni degli altri, con meno diritti e meno cure.

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